Ecco l’arte ribelle e «senza velo» dei Duchamp islamici

da Londra

Linguaggio figurato e islam tendono a formare una miscela combustibile da cui stare alla larga. Sono bastate poche vignette danesi sull’immagine del Profeta per accendere gli animi e scatenare proteste e scontri in tutto il mondo. Non sorprende quindi che l’arte contemporanea realizzata in Medio Oriente ci colga un po’ di sorpresa, l’arte del dissenso coltivata lontano dalle moschee, l’arte blasfema che ironizza e accusa, che esprime stanchezza dell’ortodossia, voglia di apertura. Arte ironica ma impietosa, come le donne velate di Shadi Ghadirian, il volto nascosto da un guanto di gomma, una grattugia, un ferro da stiro, un padella: Ghadirian è iraniana, vive a lavora a Teheran. Oppure arte sfacciata, sempre dall’Iran, come le sculture delle prostitute di Shirin Fakhim, grottesche bambole di sesso fatte di stracci frutta e oggetti da cucina, le gambe scomposte in ruvide calze, primitivi e sguaiati Arcimboldi che tolgono il chador alle 100mila prostitute che oggi lavorano a Teheran.
È un’interpretazione antistorica pensare che nei Paesi dell’islam l’arte abbia cessato di esistere secoli fa e caso mai possa essere soltanto astratta. Questo è vero nell’angolazione fondamentalista, che la nuova mostra allestita alla Saatchi Gallery di Londra dal titolo «Unveiled: New Art from the Middle East» (fino al 6 maggio) smentisce clamorosamente. Arte senza velo dunque, promossa dal controverso ma brillante collezionista e mercante Charles Saatchi, la cui origine ebraico irachena ne fa un fuoriclasse con il merito dell’audacia senza remore. «Unveiled» ci trasporta dunque in un terreno inesplorato, il boom degli artisti più originali è a Teheran, al Cairo, Beirut e Ramallah negli ultimi dieci anni. Sono artisti giovani che elaborano temi locali aprendo un dialogo con i gusti, le tradizioni e i mercati occidentali. In Shadi Ghadirian si sente l’eco di Marcel Duchamp, nelle immagini dei bombardamenti di Bagdad di Ahmed Alsoudani è presente Picasso, ma la creatività che scaturisce dalla tensione fra tradizione e influenze globali rasenta a volte la temerarietà culturale: l’iraniano Ramin Haerizadeh nella sua serie «Uomini di Allah» racconta le storie di Maometto con grandi immagini di due uomini irsuti ferocemente avvinghiati in contorte posizioni sensuali in un Paradiso persiano perduto: sono fotografie manipolate digitalmente che riprendono il teatro storico taziye in cui tutti i ruoli delle donne dell’harem sono rievocati da uomini. Prevedibilmente polemica, ma ugualmente travolgente, l’installazione dell’algerino Kader Attia, una grande sala piena di donne musulmane inginocchiate in preghiera, fatte di vuote crisalidi di carta argentata, perché come persone in realtà non esistono.
L’arte araba alla Saatchi è contemporanea nel senso occidentale: è nuova, non è religiosa, è radicale nell’uso di media e figurazioni nuovi, è straordinariamente coraggiosa e incisiva. È un detonante dei pregiudizi comuni, degli stereotipi e delle caricature che nutrono la nostra visione del Medio Oriente.

Il recente insuccesso di «Altermodern» la triennale d’arte contemporanea alla Tate Modern, conferma che l’arte si sta spostando verso un globalismo che potrebbe proprio avere nel Medio Oriente un nuovo centro importante di dialettica artistica.

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