Ecco perché la sinistra non sa guardare la tv

Ecco perché la sinistra non sa guardare la tv

È uno di quei libri che conviene leggere più che raccontare. Purtroppo sarà destinato più ad essere raccontato che ad essere letto. Si farà commercio delle storie dei suoi due autori. Si dirà che Franco Debenedetti è un «riformista» certo, ma di quelli maverick, originali. Che ha persino unito il cognome, invece di dividerlo, come al contrario ha preferito il fratello Carlo. E di Antonio Pilati si confonderà la sua passione per il mercato televisivo, nata in periodi non sospetti, con l’accondiscendenza alle tesi di Mediaset. Ma di commercio, appunto, si tratta. La guerra dei trent’anni più che della televisione commerciale, tratta di storia politica. È la cronaca di un trentennio in cui la sinistra è stata vinta dalla propria ossessione. È la genesi dell’ostilità di un certo establishment nei confronti dei nuovi arrivati: la presunzione degli «ottimati» di utilizzare il moralismo come strumento di battaglia politica. È la «bella politica» di cui parla Eugenio Scalfari, dietro alla quale si nasconde un’incapacità di leggere i mutamenti popolari. Dall’anticraxismo alla questione morale di Berlinguer, dalla conservazione del compromesso storico al girotondismo. È la storia, nella prima parte del libro scritta da Debenedetti, della politica italiana dal 1975 ai giorni nostri. In un gioco di specchi si leggono i principali movimenti del nostro quadro politico nel riflesso deformato dello sviluppo della televisione commerciale. I democristiani della Rai, la sinistra dc, Berlinguer, Craxi, il pentapartito, Mani pulite e infine Berlusconi coinvolti da un’industria bambina che stava capovolgendo il set di valori di una società in mutazione. «I giornali nascono politici - leggiamo - e approdano all’impresa. Mentre la Tv nasce commerciale e approda alla politica». Applicare le interpretazioni tipicamente adottate per la carta stampata alle televisioni commerciali è stato l’errore genetico commesso dai detrattori di Mediaset. Un malinteso gigantesco, figlio di un’incapacità di comprendere la realtà. L’ossessione di portare le lancette qualche anno indietro viene descritta bene da Debenedetti: «Prima si deve tornare allo stato precedente». Craxi comprende per primo che è necessario spettacolarizzare la politica «per una forza che non ha gli strumenti di comunicazione della Dc e del Pci». La televisione commerciale non può che essere il suo strumento principale. Ma si tratta di una fase cavernicola del nostro sistema. La televisione rappresenta in questo senso una rottura più che una conservazione. È l’apertura del vaso di pandora dei mutamenti sociali del Paese. «Se la tv sembra spiazzare la politica, non è in conseguenza dell’entrata in campo del proprietario della Tv - scrive Debenedetti - ma anche del fatto che nell’opposizione tra tv pubblica e generalista sono contenute le contrapposizioni politiche accumulatesi negli ultimi decenni: privato e pubblico; crescita delle esportazioni e mercato interno; perdita di contatto con le piccole e medie imprese» e così via. Ma ancora e più esplicitamente: «A far vincere Berlusconi non è stata la propaganda, ma la televisione in quanto tale, non i mesi o l’anno dalla decisione di entrare in politica, ma i vent’anni in cui si è formata un’opinione generalizzata». Il tema non è dunque o solo quello dell’innegabile conflitto di interessi tra il proprietario delle tre reti Mediaset e il suo ruolo politico, ma piuttosto il conflitto di rappresentanza tra una classe politica nata e assecondata dalla Tv pubblica e una società completamente mutata anche grazie alla tv generalista. Ricorda Debenedetti la prima interpretazione di Bobbio: «Perché ha vinto Berlusconi? Credo che determinante sia stata la televisione, non nel senso che Berlusconi sia apparso in video molto più degli altri, ma perché la società nata dalla televisione è una società naturaliter di destra». Una società che non è stata compresa dal riformismo di sinistra. Che ha perso così la sfida di diventare maggioranza nel Paese. La questione televisiva diventa quindi un dettaglio. Sia pure fondamentale. La battaglia sulle televisioni Mediaset diventa una battaglia di principio. Ma soprattutto una battaglia contro una società che è mutata. E Berlusconi ne rappresenta la plastica icona. È un libro difficile. La tesi di Debenedetti non è propriamente berlusconiana.

Così come evidentemente non può essere oggi letta come propriamente «democratica». Non si accomoda sulla curva di alcuna tifoseria. Si dice che la «guerra è finita» pur mancando una pace ufficiale. Chi scrive, per quel che conta, in ciò dissente. La guerra continua. Eccome.

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