Milioni di morti. Morti di cui a lungo si è preferito non parlare. Sono le vittime dei regimi comunisti, sviluppatisi a partire dalla rivoluzione Russa del 1917. Le spiegazioni del silenzio su questa violenza totalitaria sono abbastanza ovvie. Dopo la seconda guerra mondiale era facile denunciare gli orrendi crimini del nazismo o del militarismo nipponico. Non erano più parte in causa. Ben diverso il caso dell'Urss, della Cina e dei loro Stati satellite, come Cuba o il Vietnam. Non era facile indagare oltre le cortine, di ferro o di bambù cambia poco. E quindi se l'esistenza della strage era nota restava molto complesso quantificarla. Ed esisteva in Occidente un ampio movimento politico e di opinione che non voleva in alcun modo sentire parlare delle colpe del comunismo. E non soltanto nei Paesi che, come l'Italia, avevano la presenza di un partito comunista politicamente consistente. Anche negli Usa durante la guerra del Vietnam una larga parte dell'opinione pubblica era pronta a stigmatizzare ogni violenza compiuta dalle truppe statunitensi, ma sceglieva di ignorare le violenze dei vietcong o dell'esercito regolare nordvietnamita.
Alla fine fu il parlamento statunitense, quasi cinquant'anni fa, a chiedere agli storici di fare uno sforzo per quantificare il «male» prodotto dai regimi comunisti. Ed è così che è nato il testo che oggi viene ripubblicato in Italia da D'Ettoris Editori: Il costo umano del comunismo (pagg. 200 euro 19,90). Il testo raccoglie testi di Robert A. Conquest, Richard L. Walker, James O. Eastland e Stephen T. Osmer e fu un lavoro assolutamente pionieristico. Ma vediamo di raccontarne un poco la genesi. Agli inizi della presidenza repubblicana di Nixon, il Senato Usa commissionò, attraverso il McCarran Committee tre studi per dotarsi di un argomento forte da opporre alla propaganda comunista. Venne così alla luce nel 1970 The Human Cost of Soviet Communism. A scriverlo fu l'illustre storico britannico Robert Conquest, che della rivoluzione sovietica era uno dei massimi studiosi. Nel 1971 arrivò The Human Cost of Communism in China scritto dall'ambasciatore americano in Corea del Sud, Richard Louis Walker. Il terzo, infine, The Human Cost of Communism in Vietnam arrivò nel 1972 e fu coordinato da James Oliver Eastland, senatore democratico del Mississippi. I numeri che venivano presentati all'interno dei «compendia» - questa la denominazione tecnica senatoria - all'epoca suonarono giganteschi per l'opinione pubblica. Col senno del poi possiamo considerarli spesso sottostimati. In Italia i rapporti vennero notati dalle edizioni del Borghese, fondato da Leo Longanesi e in quel momento diretto da Gianna Preda e Mario Tedeschi, venendo pubblicati nel 1973. Da allora è scomparso dal panorama italiana.
Ovviamente fra i tre, è il saggio di Conquest (1917-2015) ad avere il valore storico più pregnante. Lo storico britannico rielabora qui in breve molti dei materiali del suo celebre Il Grande Terrore pubblicato nel 1968. Conquest espunge dalla sua ricostruzione tutti i morti provocati dagli eventi bellici della Rivoluzione russa e si concentra solo sugli effetti delle azioni politiche mirate e rivolte contro i cittadini dell'Urss stessa. Anche così il numero dei morti provocati dal comunismo, nei vent'anni seguenti alla presa del potere di Lenin, ammonta a più di 21 milioni. Di questi più di 15 milioni morti nei campi di lavoro. I giustiziati tra il 1919 e il 1923 vengono stimati invece in ben 900mila. Sarebbe una cifra enorme se non impallidisse di fronte ai due milioni di giustiziati delle purghe staliniane. Ma non solo numeri. Conquest è bravissimo a ricostruire anche il clima dei processi, il meccanismo delle delazioni. E soprattutto la follia economica dei programmi quinquennali che portò ad affamare, spesso scientemente, intere popolazioni.
Se Conquest è metodologicamente lo studioso più robusto, va però sottolineato che gli altri saggi esplorano ambiti rimasti più a lungo in ombra. Il rapporto sugli effetti del comunismo in Cina arrivò, ad esempio, proprio poco prima della storica visita di Nixon a Pechino, Hangzhou e Shanghai. E fu una voce fuori dal coro rispetto a quella maggioritaria della stampa americana tutta tesa a cantare la forza della Cina o a elogiare la distensione che stava avvenendo a colpi di racchetta da ping-pong. Richard Louis Walker mette invece ben in luce i costi del grande balzo di Mao Tzedong. Solo per prendere il potere, estromettendo i nazionalisti, i comunisti cinesi avrebbero provocato venti milioni di morti. Ed era solo l'inizio. Questo non tanto per l'inevitabile durezza dello scontro ma per una presa di posizione teorica che nel caso di Mao risaliva già al 1927: «Una rivoluzione non è un pranzo di gala, non è un'opera letteraria, un disegno, un ricamo... in parole povere, è necessario creare un breve periodo di terrore in ogni villaggio». L'unica parte di questa teorizzazione a essere messa da parte fu la brevità.
Il rapporto sul Vietnam, Paese satellite e certamente meno importante dei due precedenti, era invece fondamentale per cercare di contenere la pressione dei movimenti pacifisti che premevano per il disimpegno statunitense nel Sud-est asiatico. Non servì allo scopo, però censì per la prima volta i crimini dei vietcong, spiegando quanto la politica del partito comunista vietnamita fosse improntata alla violenza e alla sopraffazione sin dal 1945.
Quanto quei foschi precedenti fossero solo un'anticipazione delle violenze future, i vietnamiti del Sud lo vissero sulla loro pelle dopo il ritiro statunitense e la sconfitta. Ma in Occidente si preferì fare finta di niente.
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