Ecco come si affonda il Teatro dell’opera

Ecco come si affonda il Teatro dell’opera

(...) «non esiste la musica colta e la musica leggera. Esiste la buona musica e la cattiva musica». Ma ora, forse, questa opportunità non c’è più. E il brutto è che sappiamo benissimo a chi dire grazie. Per quieto vivere, si è portati a giustificare, della serie: «Hanno ragione in tanti, c’è un po’ di responsabilità da parte di tutti» e via discorrendo, all’insegna della più sfacciata par condicio (che già tanto sfacciata è, di principio, in altri campi) o, se preferite, della più spudorata irresponsabilità. E invece no, forse - e anche senza forse - pare venuto il momento di guardare i fatti (e in faccia i protagonisti). I fatti: i sindacati autonomi, Fials-Cisal, Snater e Libersind, agguerrita minoranza (70-80 iscritti) nell’ambito della rappresentanza dei lavoratori del Carlo Felice, proclamano scioperi un giorno sì e l’altro pure, e di fatto tengono in scacco il Teatro (tutto il Teatro, non solo l’odiatissimo, da loro, sovrintendente Gennaro Di Benedetto, il vero obiettivo della guerra). Ma, in questo modo, i sindacati, «quei» sindacati tengono in scacco soprattutto la città che si rifiuta di capire - magari perché non c’è niente di serio da capire - le ragioni di una guerra all’ultima nota, in grado di affondare per sempre il Carlo Felice e tutto quello che ha rappresentato e può rappresentare, non solo per i melomani. Tutto ciò, si badi, mentre gli altri sindacati confederali hanno firmato un accordo economico-normativo che soddisfa ampiamente le richieste dei dipendenti.
I protagonisti: innanzi tutto lui, Di Benedetto, alle prese con accordi fatti oggi e disfatti domani da parte di interlocutori che sono in grado di bloccare la macchina - quasi avessero il gusto del sabotaggio -, proprio quando i problemi (quali problemi? Spiegatecelo che non sono soltanto problemi personali o umorali!) sembrano avviati a soluzione o addirittura risolti. E il brutto è che sappiamo benissimo a chi dire grazie. E poi, lei, Marta Vincenzi: il sindaco ha assunto il ruolo di garante, ha fatto appello al buon senso, ha arringato il «golfo mistico», s’è presa una buona dose di applausi (che le fanno sempre piacere). Poi ha subìto uno smacco clamoroso, imbarazzante, persino offensivo e comunque non ammissibile per il fatto di essere, lei, il primo cittadino, fino a prova contraria, il rappresentante dell’intera comunità genovese. E infine loro, sempre quelli del sindacato: li credevamo bravissimi alle prese con i loro strumenti musicali, li abbiamo scoperti molto più capaci nell’uso degli strumenti della protesta, anche «a gatto selvaggio». Un capolavoro di strategia sindacalese.

Che però rischia di mandare a bagno anche loro, insieme al teatro che dicono di voler sistemare. Dunque: c’era una volta, a Genova, il nuovo Carlo Felice, che forse è solo un teatro infelice. E la città ora ha capito benissimo a chi deve dire grazie.

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