"Ecco tutte le ragioni per non essere schiavi del nostro scontento"

Lo scrittore Marcello Veneziani nel suo nuovo saggio riflette sulle catene della nostra infelicità (indotta)

"Ecco tutte le ragioni per non essere schiavi del nostro scontento"

C'è stata l'epoca delle rivoluzioni, poi quella dei ribelli. Infine, la nostra: l'età dei frustati e degli insofferenti. Lo scrive Marcello Veneziani nel suo ultimo libro (Scontenti, Marsilio, pagg.176, euro 18) in cui ricerca i motivi di questa scontentezza.

Eppure gli chiediamo - la retorica sul diritto alla felicità è un fatto tutto moderno, sancito addirittura dalla Costituzione americana. Perché, invece, accade l'esatto opposto?

«La felicità è uno stato d'animo. Non può essere un diritto garantito dalla legge e non passa dalle istituzioni e dai poteri. È una personale condizione spirituale, di solito effimera, un combaciare raggiante con la vita. È la fugace pienezza del momento».

La contentezza invece...

«È un equilibrio più duraturo, meno gioioso ma più saldo».

Parti dalla premessa che il potere ci voglia insoddisfatti per generare desideri e dipendenza. Lo scontento fa rima con conformismo?

«Lo scontento può essere una condizione interiore o sociale, civile, politica; nasce da uno squilibrio tra aspettative e realtà, insorge quando una situazione non ci piace. E nasce da un deficit, un mancato riconoscimento, una situazione che reputiamo ingiusta, inaccettabile. Quel che definiamo odio, rancore, narcisismo è una rivalsa, ma è preceduta dallo scontento».

Ma scontento è chi si sente deprivato della sua vita autentica o chi vuole vivere la vita che gli altri gli impongono?

«Come il dubbio cartesiano, c'è uno scontento metodico e uno scontento sistematico. Il primo è sano e proficuo e genera ricerca, creatività e miglioramento. L'altro è un alibi piagnone per non agire, non assumersi responsabilità, scaricare sempre sugli altri e sfocia nell'incontentabilità».

Classifichi diverse cause di scontentezza. La prima riguarda il proprio corpo. Affermi che a differenza da quanto descritto dalla scuola di Francoforte, il nuovo potere non si fonda sulla repressione dell'eros e sulla «tolleranza repressiva». Ce lo spieghi meglio?

«Il nuovo potere cerca di suscitare nei cittadini nuovi desideri perché creano nuove dipendenze, alimentano nuovi consumi e spostano l'attenzione pubblica su temi privati e su sfere bio-personali. Per desiderare fortemente qualcosa devono essere insoddisfatti di quel che sono e che hanno: a differenza del vecchio potere che preferiva sudditi contenti, il nuovo potere vuole cittadini insoddisfatti, scontenti di se stessi, del proprio corpo, di ciò che sono e come vivono. Ma poi succede che la scontentezza privata sfugge al controllo e diventa malcontento».

La seconda la correli al debito sovrano che ereditiamo dalla nascita.

«Il debito sovrano è il nuovo peccato originale della neoreligione economicista. Lo stato di debitori permanenti ci pone in condizione di perenne subalternità e ricattabilità anche quando non abbiamo colpe personali: dobbiamo espiare cedendo sovranità e libertà».

Altra causa la indichi nel modello di civiltà urbana.

«Le città sono diventate focolai di scontento: il brutto che ci circonda, la subordinazione della cittadinanza all'iper-consumo e l'invasione di migranti soffiano sulla scontentezza di vivere in quel contesto e generano un rapporto alienante con i luoghi in cui si abita».

Disegni un quadro pessimo. Una civiltà al limite del collasso dove emergono solo censori.

«Non solo: ma tutto ciò che appartiene alla nostra civiltà è vissuto con vergogna e senso di colpa. Dobbiamo essere scontenti della nostra identità, dei nostri simboli, dal crocifisso al presepe, e delle nostre tradizioni. Dobbiamo rigettarli. Questo ci insegna il nuovo Canone occidentale».

Usi il termine eutanasia.

«È l'effetto collaterale di quella scontentezza e quell'incessante desiderio di altrove, incentrato sulla propria individualità, vissuta in modo egocentrico e utilitarista. Coppie che non vogliono avere figli, ragazzi che se ne vanno all'estero, pensionati che prendono la cittadinanza in Paesi dove il costo della vita è più basso. Ogni fuga dai propri luoghi e dalle proprie responsabilità nasce da un'originaria insoddisfazione».

Citi tanti scontenti famosi. Quelli in fuga ad Oriente (Hermann Hesse), quelli mediterranei (Camus), menzioni Manlio Sgalambro ma, soprattutto, Slavoj iek e Aleksandr Dugin.

«Sono due autori anti-sistema ma molto diversi. Pensatori dello scontento radicale. iek è un marxista lacaniano che è interessante per il suo sguardo provocatorio e i nessi che coglie tra pensiero e vita presente ma le sue soluzioni sono velleitarie e improponibili. Dugin è un critico coerente e radicale della modernità occidentale ma da un verso ha una deriva sovrumanista e dall'altro è ancorato a una visione russocentrica che non può essere la nostra».

E su quali autori o personalità è allora possibile fare riferimento?

«Tra gli autori viventi, mi sembrano interessanti, oltre il sempre attivo Alain de Benoist, anche il tedesco-coreano Byung-Chul Han, il cattolico franco-tunisino Fabrice Hadjadj, lo scrittore Michel Houellebecq; poi ci sono preziosi riferimenti anche in altri ambiti, per esempio il fisico e inventore Federico Faggin. Sono i primi nomi che mi sovvengono».

Chiudi con questa raccomandazione: «Se non sei contento della tua vita, non pretendere di cambiarla alla radice. Cambia le cose che sei in grado di cambiare. E se non puoi cambiarle, fai in modo che almeno non cambino te». Non trovi una contraddizione nell'indicare il rigetto di ogni monopolio dopo aver affermato che tutto inevitabilmente muove verso l'omologazione?

«La tendenza prevalente del nostro Occidente è verso l'uniformità globale, ma poi c'è la realtà che insorge contro il modello prefabbricato e la mutazione transumana.

E nella realtà c'è l'esperienza della vita vera, il riemergere della natura, la forza dei legami, la rivolta dell'intelligenza e l'innata disposizione religiosa, comunitaria, spirituale che partendo dallo scontento può dar luogo a una svolta, una rivoluzione conservatrice, un cambio di paradigma. Se pensassimo che non ci sia più niente avremmo smesso di essere umani».

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