Sarebbe un mondo quasi perfetto, con quel mercato del lavoro «mai così vibrante», se non ci fosse di mezzo un'inflazione «ancora troppo elevata». A Davos sono planati i falchi, e Christine Lagarde rintuzza subito le aspettative legate a una Bce più accomodante sui tassi grazie al calo al 9,2% dei prezzi al consumo in dicembre. Il format resta invece, immutabile, quello degli ultimi mesi: «Terremo la barra dritta fino a quando saremo entrati in territorio restrittivo abbastanza a lungo per riportare velocemente i prezzi al consumo al 2%». Ergo, nessun cedimento, nessuna tentazione di sollevare un po' il piede dall'acceleratore come avevano fatto credere alcune indiscrezioni, subito apprezzate dai mercati, raccolte giorni fa da Bloomberg sulla possibilità di un incremento in marzo circoscritto a un quarto di punto. La «barra dritta» significa infatti altre strette da almeno mezzo punto anche nei prossimi mesi. Fino a quando, non si sa.
Per le Borse e i Btp una doccia fredda (-1,75% Milano, -1,5% l'EuroStoxx600, spread verso il Bund salito a 177 punti), resa gelida dalle parole del governatore della banca centrale olandese, Klaas Knot: «L'inflazione core nell'eurozona non ha ancora cambiato rotta, e questo significa che gli sviluppi del mercato che ho visto nelle ultime due settimane non sono del tutto graditi dal mio punto di vista. La Bce non si fermerà a un singolo rialzo di 50 punti nelle prossime riunioni del Comitato esecutivo». Il rischio è naturalmente quello di esagerare innescando una recessione severa, ma i verbali della riunione di dicembre si limitano a certificare una contrazione «breve e superficiale». Rassicura la Lagarde : il 2023 «non sarà brillante, ma sarà comunque molto meglio di quanto si temesse«. Insomma, nessun «hard landing», uno scenario neppure preso in considerazione dal presidente di Confindustria, Carlo Bonomi, che non esita a parlare di «crescita robusta».
Queste aspettative, suffragate finora solo da parziali indicatori di tenuta del ciclo congiunturale, servono anche a sostenere la narrazione secondo cui il carovita è l'unica insidia da combattere a colpi di rialzi dei tassi, nonché a tenere a debita distanza chi, come i governi italiano e francese, hanno chiesto alla Bce di andarci piano. Immaginare Eurolandia come un'isola felix nel contesto globale è però dura. Soprattutto perché negli Usa, dove il Tesoro deve ricorrere a misure straordinarie per non superare il tetto del debito (fissato a 31.400 miliardi di dollari nel 2021), lo stato di forma dell'economia non appare così smagliante (produzione industriale in flessione e picchiata dell'indice delle Pmi). E anche se un falco a stelle e strisce come il presidente della Fed di St. Louis, James Bullard, confessa di sentirsi «nervoso» a causa della fine del lockdown cinese poiché «porterà pressioni al rialzo sull'inflazione», la ripresa del Dragone presenta parecchie incognite dopo un 2022 in cui la crescita è stata la più bassa degli ultimi 40 anni.
Ma il racconto sul dissolvimento dello spettro della recessione è anche funzionale ai paladini del rigore contabile.
Come il premier olandese Mark Rutte, quello che poco più di un anno fa sembrava aver abiurato l'austerity e ora, dalle montagne svizzere, torna a ruggire contro il Club degli spendaccioni: «Dobbiamo ridurre l'indebitamento pubblico, che è ancora troppo alto in Italia, in Francia ed altri Paesi e appesantisce la crescita». Dove intervenire? Sulle pensioni, un vecchio pallino fin dai tempi dei negoziati per il Recovery Fund: «Roma, Parigi e altri spendono dal 10 al 15% del Pil» .
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