Tutto cambi perché nulla cambi. C'è un che di gattopardesco nel Jerome Powell che ieri, in videoconferenza, ha aperto le danze del simposio di Jackson Hole. Il presidente della Federal Reserve ha indicato il nuovo sol dell'avvenire del capitalismo: basta con l'ossessione per l'inflazione, da ora focus sul mercato del lavoro. I due temi sono da sempre legati da uno stretto rapporto di causa ed effetto: una bassa disoccupazione innesca tassi più alti. E viceversa. Adesso la Fed dice che non sarà più così. E lo dimostra adottando quello che in gergo tecnico si chiama Average inflation targeting. Anziché mantenere l'obiettivo di una crescita annua del 2% dei prezzi, si passa a un meccanismo basato su una media del 2% da raggiungere in un tempo non meglio precisato. Il motivo ufficiale è che la banca centrale Usa non vuole vincolarsi a una formula matematica. La Bank of America ha però calcolato che se indicasse un riferimento temporale, l'istituto di Washington dovrebbe aspettare 42 anni prima di poter mettere mano ai tassi.
Il capo di Eccles Building preferisce invece parlar d'altro: Molti trovano controintuitivo che vogliamo spingere verso l'alto l'inflazione. Tuttavia, un'inflazione costantemente troppo bassa può comportare seri rischi per l'economia. Più che banale, un messaggio forte e chiaro mandato a Wall Street: la stretta è rinviata quasi sine die e con essa ogni processo di normalizzazione della politica monetaria, cioè il tanto temuto taper-tantrum. Il non convenzionale è quindi diventando il new normal. Il rischio di alimentare altre bolle finanziarie e incoraggiare altro debito non viene neppure preso in considerazione. Il Dow Jones, guarda caso, ha azzerato proprio ieri le perdite 2020.
Powell, naturalmente, tende a enfatizzare un aspetto diverso: Questo cambiamento - ha spiegato - riflette il nostro apprezzamento per i vantaggi di un mercato del lavoro forte, in particolare per molti nelle comunità a reddito basso e moderato. Il livello massimo di occupazione è un obiettivo ampio e inclusivo. La Fed non indica però, con una percentuale, quale sia questo obiettivo. Inoltre, restano tutte da dimostrare le ricadute benefiche sul mercato del lavoro. Ci sarebbero solo se la Fed spingesse sui miglioramenti salariali abiurando gli anni in cui ha incoraggiato la compressione delle buste paghe (una delle cause dell'inflazione anemica) in nome di profitti sempre più alti. Questo sì che sarebbe un cambio di paradigma epocale. Ma anche se lo facesse, potrebbe ormai essere troppo tardi. Le tendenze deflazionistiche innescate dall'innovazione tecnologica sono state amplificate dal Covid-19, e lo smart-working, con l'impatto sui prezzi degli immobili commerciali, ne è solo un esempio. Così come l'auto elettrica finirà per eliminare - o fortemente ridurre - quella fonte di inflazione che deriva dal petrolio. Potremmo insomma aver superato il punto di non ritorno.
Del resto, gli ultimi anni hanno visto le banche centrali far la guerra senza successo alla scarsa crescita dei prezzi. La sola Fed ha gonfiato il proprio bilancio fino a toccare i 7mila miliardi di dollari (e già in settembre l'ipertrofia da asset potrebbe aumentare in caso di recrudescenza della pandemia), per ritrovarsi con un'inflazione core sotto l'1%, un Pil che nel secondo trimestre è crollato del 31,7% (meno comunque rispetto al -32,9% della prima stima) e con ancora un milione di richieste di sussidi di disoccupazione nell'ultima settimana.
La lezione del Giappone, intrappolato in una deflazione cronica dal 2013, non è servita.
O, forse, non doveva servire perché si puntava ad altro: tenere in piedi i mercati, le banche e le aziende e, per quanto possibile, salvare posti di lavoro. Cambiare tutto per preservare tutto sembra l'unica scelta rimasta alla Fed.
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