«Problemi di calendario». Dietro una motivazione che non sta in piedi, Stati Uniti e Cina hanno giustificato così ieri, secondo l'agenzia Reuters, la decisione di far saltare la videoconferenza di Ferragosto, l'appuntamento che doveva sancire la ripresa dei negoziati commerciali a sei mesi di distanza dall'accordo di Fase Uno. Il fatto che la nuova data della conference call non sia stata ancora definita dà credito all'ipotesi che fra le due super-potenze sia maturata una rottura. I rapporti fra Washington e Pechino si sono ulteriormente deteriorati nelle ultime settimane, alla luce dei nuovi fronti aperti legati alle tensioni su Hong Kong e alla vicenda TikTok. Qualche giorno fa, gli Usa avevano poi messo il carico da novanta sulle accuse rivolte a più riprese al Dragone di essere colpevole della diffusione della pandemia con le parole fredde e distaccate di Donald Trump del suo omologo, Xi Jinping («Con lui non parlo da molto tempo, a causa del virus») . E anche se l'alibi del Covid-19 regge perfettamente, nuove frizioni potrebbero essere state innescate dal fatto che l'ex Impero Celeste non sta rispettando l'impegno di acquistare 2mila miliardi di dollari di beni made in Usa.
Lo stop ai negoziati arriva in un momento delicato. Perché della «ripresa a V», ventilata dall'inquilino della Casa Bianca, non c'è traccia. Ferragosto manda una cartolina perentoria quanto un precetto militare: meglio stare ancora in trincea. Perché il Coronavirus resta saldo sul proscenio, come dimostrano la crescita dei contagi e la quarantena imposta da molti Paesi a chi rientra dall'estero. Siamo ancora immersi nel mood pandemico, con lo sguardo incerto di chi teme lo scattare dei lucchetti del secondo lockdown, mentre il cuore economico globale batte in maniera irregolare. Ieri una raffica di bad news è risultata indigesta alle Borse. L'Europa ha lasciato sul terreno con lo Stoxx600 l'1,19%, Milano ha perso l'1,13% mentre Wall Street ha azzerato i ribassi durante la seduta fino a guadagnare lo 0,14% a un'ora dalla chiusura.
Le vendite sono state determinate nel Vecchio Continente dalla caduta del Pil nel secondo trimestre nell'eurozona (-12,1%) e dagli occupati scesi del 2,8%. Appena un po' meno peggio l'Unione europea: -11,7% la contrazione economica. In entrambi i casi si tratta del peggior andamento dal 1995, anno d'inizio delle serie storiche. A preoccupare ora è come potrebbero mettersi le cose nell'ultimo quarter, se la pandemia tornerà a essere fuori controllo.
È la stessa inquietudine vissuta dalla Cina, dove i consumi interni restano sotto la linea di galleggiamento da gennaio (-1,1% in luglio) e allontanano la transizione da un'economia basata solo sull'export a un'economia più bilanciata; la produzione industriale, pur in crescita annua del 4,8%, ha deluso le attese (+5%) e il dato sulla disoccupazione (invariata al 5,7% rispetto a giugno) appare frutto dei consueti magheggi del governo di Pechino per imbellettare una situazione sociale ben peggiore.
The Donald vuole sfruttare le debolezze cinesi a fini elettorali, ma è costretto a vigilare sul fronte interno.
Se l'aumento della produzione industriale ha superato il mese scorso le attese (+3% su giugno), la recovery a stelle e strisce fatica a intravvedersi nell'asfittico aumento delle vendite al consumo (+1,2% in luglio dopo il +8,4% di giugno). Vedremo se il miglioramento della fiducia dei consumatori in agosto si tradurrà da settembre in una ripresa delle spese private.
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