La guerra saudita all'oro nero ​per fermare Usa, Russia e Iran

Dietro al nuovo record negativo del prezzo del petrolio, ci sono le mosse dell'Arabia Saudita. Per mantenere l'egemonia, spingono le quotazioni al ribasso arginando le estrazioni di shale oil degli Stati Uniti, il ritorno dell'Iran e il business della Russia. A farci le spese è l'Europa

La guerra saudita all'oro nero ​per fermare Usa, Russia e Iran

I future sul Brent negoziati a Londra hanno subito un calo del 2%, rompendo la soglia psicologica dei 40 dollari a barile e toccando quota 39,99 dollari. Si tratta della prima volta dal febbraio del 2009. Già ieri il Brent aveva subito un netto calo a seguito della decisione presa dalla riunione dell’Opec di venerdì scorso di non tagliare la produzione di petrolio. In realtà il nuovo record negativo dell'oro nero non deve più sorprenderci perché la flessione dei prezzi non ha più granché a che vedere con le naturali dinamiche di mercato di equilibrio di domanda e dell'offerta. Come spiega Alberto Negri sul Sole 24Ore, dietro a questa "guerra al contrario" c'è prevalentemente la regia dell'Arabia Saudita che, essendo il principale produttore di greggio al mondo, sta cercando di usare la leva dei prezzi per combattere una guerra economica contro gli Stati Uniti, la Russia e l'Iran. Una guerra che si intreccia con le tensioni geopolitiche che scuotono tutto il Medio Oriente.

"Più il conflitto in Medio Oriente si fa distruttivo più il prezzo scende - spiega Negri sul Sole 24Ore - un tempo bastava l'accenno di un conflitto per alzare le quotazioni e rimpinguare le casse dei Paesi produttori". Ma è un paradosso apparente. "Oggi l'arma del petrolio si è rovesciata - continua nell'analisi - l'Arabia Saudita ha fatto saltare l'Opec e le quote del tetto produttivo per mettere al tappeto l'Iran, la Russia e fronteggiare l'ascesa dello shale oil americano". Ormai da tempo il governo di Riad usa una aggressiva strategia per stroncare i propri competitor. Nel mirino dei sauditi ci sono, in particolar modo, gli Stati Uniti. Per metterli in ginocchio, abbassano i prezzi del petrolio a tal punto da non rendere più conveniente agli americani l'estrazione dell'olio di scisto. Secondo alcuni analisti del settore petrolifero, l'estrazione dello shale oil ha bisogno di un prezzo intorno ai 70 dollari al barile per creare un guadagno. Tetto che è già stato superato al ribasso da molto tempo. A differenza di quanto ipotizzato dai sauditi, però, i colossi statunitensi hanno tenuto botta e non sono finiti gambe all'aria.

Mantenedo bassi i prezzi del petrolio, l'Arabia Saudita spera anche di arginare l'ingresso nel mercato dell'Iran che, come fa notare anche l'Huffington Post, è "l'unico gigante dell'area in grado di contrastare l'egemonia nel Golfo dei sauditi". In realtà la strategia di Riad non è affatto a costo zero. Anzi, gli sta costando parecchio. "Soltanto nel 2015 - scrive il Sole 24Ore - con la guerra dei prezzi sono stati bruciati dal Paese 150 miliardi di dollari". Sullo sfondo della strategia saudita usata per conservare l'egemonia sul petrolio si muovono comunque domanda e offerta. La prima continua a restare debole a causa della timida ripresa dell'economia mondiale e della riduzione dei consumi. Se da una parte la domanda potrebbe anche risalire, dall'altra l'offerta resta sempre negativa. Il rischio è che l'iperattività della Russia e il prossimo ritorno dell'Iran facciano schizzare l'offerta ben oltre alla domanda. Se così dovesse accadere, i prezzi si manterrebbero stabilmente bassi. "Non sarà dunque una situazione transitoria - spiega Riccardo Sorrentino sul Sole 24Ore - le economie dovranno imparare a convivere con il petrolio basso".

Se da una parte potrebbe essere un bene per i consumi e per le case automobilistiche, dall'altro si rivela un ulteriore colpo all'inflazione. "La politica monetaria, soprattutto in Eurolandia - conclude Sorrentino - punta molto su un rialzo del prezzo del petrolio che potrebbe non verificarsi".

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