Sfuma la tregua sui tassi, fa paura l'inflazione Usa

Oggi Lagarde potrebbe fermare la corsa del costo del denaro ma la crescita dei prezzi americani spinge per un nuovo rialzo

Sfuma la tregua sui tassi, fa paura l'inflazione Usa
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Giusto poco più di un anno fa, Wall Street e i mercati tutti celebravano con un chiassoso «funeral party» in stile New Orleans la dipartita dell'inflazione. Erano esequie premature, frutto di un abbaglio collettivo. Dodici mesi dopo, l'azione di contenimento dei prezzi al consumo da parte delle banche centrali non è infatti ancora terminata. Soprattutto sul versante Bce. È bastato che la Reuters mettesse le mani sulle nuove previsioni dell'Eurotower sul carovita, visto al 3% per l'intero 2024, per far schizzare ieri al 70%, dal 41% d'inizio settimana, le possibilità di un altro rialzo dei tassi da un quarto di punto in occasione della riunione in calendario oggi.

Dopo aver rottamato la cosiddetta «forward guidance», ovvero le indicazioni sull'evoluzione della politica monetaria, Christine Lagarde&Hawks ripetono come un disco rotto che ogni mossa sarà legata ai nuovi dati. Ma quella proiezione sull'anno prossimo è sia una pietra tombale calata sulle speranze di una postura meno rigida ora (costo del denaro lasciato al 4,25% fra poche ore), sia un elastico che allungherà verosimilmente la teoria di inasprimenti - già nove a partire dal luglio '22 - fino a una data non meglio precisata. Francoforte ha fatto da tempo una precisa scelta di campo: la priorità è la lotta (seppur tardiva e affrettata) al carovita, senza troppo curarsi degli effetti negativi sull'eurozona. Fino al punto da imporre ai governi l'eliminazione della misure-tampone per alleggerire il carovita.

Non saranno quindi le ombre di recessione che si allungano sull'eurozona, né il Pil tedesco in rigor mortis, a farle cambiare idea. Anche perché a dar man forte alla Bce sono le notizie che rimbalzano al di là dell'Atlantico. La convinzione che in America sia in atto processo disinflazionistico tale da indurre la Fed a essere meno aggressiva, si sta sgretolando come un grissino. Al contrario, l'inflazione è viva ed è destinata a diventare il convitato di pietra principale nella corsa per assicurarsi le chiavi della Casa Bianca. Arrivato a sfiorare i quattro dollari, il gallone di benzina è già ora per Joe Biden una minaccia ben più seria sotto il profilo elettorale della richiesta di impeachment repubblicana. Nonostante la narrazione edulcorata del leader Usa («L'inflazione tende a scendere verso i livelli pre-pandemia in un momento in cui l'occupazione rimane forte»), il pieno ha subìto un rincaro del 10,6% in agosto, mettendo più di uno zampino nella risalita al 3,7% tendenziale dell'inflazione e nell'aumento mensile dello 0,6%, il più alto da giugno 2022. A conferma di come in quasi quattro anni di presidenza l'indice «gasoline», balzato del 78% e non solo per colpa di Putin, sia stato una continua spina nel fianco per il successore di Trump.

A preoccupare è però l'intera «filiera» dei prezzi energetici (+5,6% in un solo mese), con effetti di trascinamento non marginali su settori come i trasporti (i biglietti aerei sono aumentati di quasi il 5%) destinati a impattare nei prossimi mesi sui beni di prima necessità (+0,2% i generi alimentari) e fin d'ora sulla parte «core» dell'indice (+3,7% annuo, +0,3% mensile), quella che più inquieta chi possiede azioni e bond poiché è lì che va a scandagliare la Fed. È vero: i costi dell'energia restano ancora inferiori di un 13% rispetto a un anno fa, ma l'impressione è che l'America - e ciò vale anche per l'Europa - stia dilapidando in fretta il tesoretto messo da parte nel periodo di raffreddamento delle quotazioni di petrolio e gas. Pesano, in particolare, le politiche di contenimento produttivo messe in campo dall'Opec+ (il Cartello allargato anche alla Russia). Il rischio di vedere il barile raggiungere la soglia psicologica dei 100 dollari è reale; così come una fiammata del metano, visto che è bastato uno sciopero dei lavoratori australiani della Chevron per far salire di oltre il 10% i mercati dell'energia.

La strada pare quindi tracciata: la Fed lascerà i tassi invariati la prossima settimana per poi alzarli in novembre, mentre la Bce ha già in mano la lima per affilare gli artigli. Per darci - come direbbe Jerome Powell - un altro «po' di dolore». Prepariamo i cerotti.

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