EDITORIALE "I furbetti Romiti e Della Valle"

Cesare Romiti parla di conflitto d'interessi, dimenticando quello che fece la Fiat con la stampa quando ne era a capo. Il patron di Tod's attacca Geronzi, ma per tornaconto personale

EDITORIALE "I furbetti 
Romiti e Della Valle"

Cesare Romiti è un anziano si­gnore molto rispettato, famo­so per aver salvato la Fiat dai disastri provocati prima dal '68 poi dalla crisi economica degli an­ni Settanta e infine da alcune scelte della famiglia Agnelli. Fu lui a riporta­re in mare la corazzata industriale e a pilotarla per oltre vent'anni. Tra i suoi meriti, il principale fu forse quel­lo di essere riuscito a tenere l'Avvoca­to fuori dalla plancia. In quel tempo Romiti aveva due passioni: l'impresa e i giornali. Attraverso Fiat prima e Ge­mina poi aveva le mani sul Corriere della Sera (La Stampa faceva parte del patrimonio di casa, la Repubblica era di un parente stretto). E fu una pre­sa forte, perché oltre alla passione l'uomo sapeva bene che potere e in­formazione vanno a braccetto.

Dopo un lungo periodo di assenza, Romiti ieri è tornato in tv, ospite di Maria Latella (sua ex giornalista) nel pomeridiano di Sky. Tra l'altro ha det­to: spero che Mediaset non si interes­si alla carta stampata perché sarebbe un duro colpo alla libertà di informa­zione. Ha poi dubitato con sarcasmo delle parole di Fedele Confalonieri, che nei giorni scorsi aveva definito stupidaggini le voci su possibili in­gressi di Mediaset nella proprietà di importanti quotidiani.

Sono convinto che Confalonieri non mente, ma resta comunque tri­ste vedere un ex grande dell'impresa italiana allinearsi all'antiberlusconi­smo militante pur di strappare un ulti­mo titolo di prima pagina, farsi stru­mento del Santoro di turno. Ma chi vuole prendere in giro, dottor Romi­ti? Nei suoi giornali (io ci sono stato) non si poteva scrivere non dico una notizia ma neppure una riga che Fiat (cioè lei) non volesse, ligi al motto: ciò che serve a Fiat serviva al Paese. E questo accadeva non solo nei fogli di proprietà diretta o indiretta. Attraver­so la ragnatela del potere e i soldoni della pubblicità, il condizionamento della carta stampata e della magistra­tura era generale. Scontato che Fiat (le sue aziende, le sue banche, le sue assicurazioni) era intoccabile, lei cre­de, dottor Romiti, che qualche pm, di­rettore o cronista, durante il suo re­gno fosse libero di indagare sui conti esteri della famiglia Agnelli? Di curio­sare tra i giovani amorazzi dell'Avvo­cato, che in quanto a bunga bunga la sapeva più lunga di Berlusconi? Di in­fangare la real casa pubblicando, per esempio, i veri motivi che portarono al suicidio del povero Edoardo?

Se questo Paese ha perso molti tre­ni non è soltanto perché quelli costru­iti dalla Fiat erano inadeguati (ricor­date i primi pendolini, sempre fermi in mezzo alla campagna?) ma anche per il tap­po che l'era tanto cara a Romiti provocò sulla li­bertà di informazione. Il più colossale conflit­to di interesse mai visto in questo Paese non è quello che oggi Romiti paventa ma quello di cui lui fu, impunemen­te, artefice e protagoni­sta.

L'ex numero uno di Fiat non è in queste ore l'unico furbetto della comunicazione. Sem­pre ieri Diego Della Val­le, imprenditore di successo (Tod’s e non so­lo), ha sferrato un vio­lento attacco a Cesare Geronzi, presidente delle Generali. Le Ge­nerali sono una delle più grandi casseforti private del Paese, tanto grande da poter incide­re sul futuro della stabi­lità del sistema Italia forse anche più del governo stesso. Questo concetto, direi questa responsabilità, è ben presente a Cesare Ge­ronzi che di conseguen­za dirige i lavori a mo­do suo, che è poi quello dell'interesse degli azionisti prima di tutto ma con un occhio a in­teressi generali. Ciò non è una cosa disdice­vole. Dal punto di vista strettamente di merca­to e di redditività, pro­babilmente sarebbe stato più conveniente vendere l'Alitalia ai francesi, o Telecom agli spagnoli, tanto per fare due esempi con­creti. Se così fosse stato oggi saremmo l'unico Paese occidentale a di­pendere dall'estero per la telefonia e il tra­sporto aereo.

Ma questo rischio non è considerato tale da imprenditori che evidentemente e legitti­mamente, pur arrivan­do per meriti nel cuore del sistema finanziario del Paese (Della Valle è nel consiglio di ammi­nistrazione di Genera­­li), pensano sempre, co­munque ed esclusiva­mente agli affari loro. Che se poi di questi affa­ri ( investimenti in grat­tacieli francesi, banche russe o nuovi treni ita­liani via consociate estere) non se ne sa nul­­la, neppure in consi­glio di amministrazio­ne, tanto meglio. Ge­ronzi è accusato di vo­ler capire che cosa suc­cede nella più grande impresa italiana che gli è stata liberamente affi­data.

Non mi sembra un reato, anche se capi­sco­ che la cosa possa in­nervosire chi pensava che fosse giunto il mo­mento di poter fare gli affari propri senza trop­pi intralci. In questo la parabola di Della Valle assomiglia molto a quella di Gianfranco Fi­ni: rompere con il gran­de capo per ottenere qualche vantaggio per­sonale. Fini sbagliò pa­role, modi e tempi. Del­la Valle vedremo.

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