EDWARD MORGAN FORSTER

Quando Maurice di E.M. Forster, incentrato sul «fenomeno così mal compreso, così inutilmente deplorato», per dirla con Proust, uscì finalmente in Inghilterra dopo sei decenni di gestazione e composizione, fu inesorabilmente giudicato dai critici nettamente inferiore agli altri libri del celebre autore di Passaggio in India. La fantasia gay a lieto fine, uscita postuma nel 1971, un anno dopo la scomparsa del suo autore, è tuttavia ritenuta «la più onesta» delle sue opere, cruciale per la comprensione del suo lavoro e della sua vita, secondo la tesi di una nuova biografia dello scrittore: A New Life (Londra, ed. Bloomsbury, pagg. 416, sterline 25) a cura di Wendy Moffat, che identifica nella frustrazione sessuale l’essenza della sua vena creativa. Ne emerge un acuto e originale ritratto del romanziere tracciato dall’autrice, ricercatrice all’università della Pennsylvania, sulla scorta di scritti inediti e dei diari privati di Forster tenuti fino all’anno scorso segreti al «King’s College» di Cambridge.
«Sarei stato uno scrittore più famoso se avessi scritto di più», spiegava lui negli ultimi anni, «ma il sesso me lo ha impedito». Lo scrittore ebbe una lenta maturazione sessuale, o piuttosto un lento risveglio dalla condizione che teneva sopita per non sfidare le convenzioni sociali negli anni in cui facevano scandalo i processi di Oscar Wilde. «I sotterfugi e i sensi di colpa che mi potevano essere risparmiati!» scriveva con rabbia nel diario verso la fine della sua lunga vita.
Stupisce in effetti che un autore di quattro romanzi di riconosciuto valore letterario, a un certo punto non senta più l’urgenza di scrivere, e che proprio all’apice del successo con Casa Howard trovasse la sua vita «triste e opaca» e confessasse al suo diario, nel giugno del 1911, di «non poterne più di scrivere soltanto dell’amore delle donne per gli uomini e viceversa». In realtà, dietro la satira sottile della vita inglese arroccata nelle convenzioni, tutti i suoi romanzi indagano i rapporti umani, le abitudini e i pregiudizi che li mettono in crisi. Sono rivelatori e imprevedibili, hanno il tocco leggero, un equilibrio di obliquità, perspicacia e idealismo. Anche il suo canto del cigno, A Passage to India, il suo capolavoro pubblicato nel 1924, era nato come una meditazione sui limiti della capacità umana di «connettere», ma si era poi arreso con onestà all’inafferrabilità dell’India. Poi, inspiegabile, il silenzio. Passaggio in India è il suo commiato dal romanzo, senza rimpianti, anzi quasi con sollievo. Non cessò tuttavia di scrivere saggi, diari e lettere. E appunto il notorio Maurice.
Nato nel 1879, orfano di padre, fragile e delicato, dominato da una madre formidabile e soffocante, Forster era cresciuto timido e ritroso, goffo e impacciato, gli occhi sempre abbassati. Bersaglio dei compagni prepotenti a scuola, all’Università a Cambridge, aveva trovato finalmente degli «amici» fra gli spiriti più raffinati del gruppo dei cosiddetti «Apostoli», con i quali intrecciò durature «amicizie». Insomma, la sua era un’omosessualità senza sesso. Il Grand Tour in Italia, intrapreso con la madre dopo la laurea, risvegliò la sua sensibilità atrofizzata e, sulla spinta delle impressioni riportate, egli trasferì nella scrittura i conflitti e le agonie personali. Nel 1904, a 25 anni, si accingeva a scrivere Camera con vista, Monteriano, Il viaggio più lungo. Cinque anni dopo cominciava Casa Howard. Quattro opere importanti prima dei trent’anni. Fu uno straordinario slancio creativo, un torrente se paragonato al silenzio che doveva seguire. Ed è plausibile che sia stato innestato dalla frustrazione sessuale. Nel circolo di Bloomsbury, Lytton Strachey con invidia lo chiamava «la talpa», nomignolo crudelmente perfetto per uno scrittore che in pubblico tendeva ad annullarsi, mentre in privato scavava segretamente una vita sotterranea: «la sua vera vita» dice Wendy Moffat. Dava sempre l’impressione di essere timido e casto, in realtà era tutto il contrario.
Nel 1916, a 37 anni, tutto cambia. Non in Inghilterra né in Italia, ma ad Alessandria d’Egitto, nell’orbita del più disinibito Cavafy, Forster coltiva con tenera passione una relazione intensa con il giovane Mohammed al Adl che ricambia. Un intero capitolo della biografia è dedicato al risveglio sessuale alessandrino. Da questo momento, dall’Egitto all’India sempre alla ricerca di un’alternativa alla civiltà inglese, la sua vita segue l’esortazione dell’ardente e ingenua epigrafe di Casa Howard: «Solo connettere», ossia trovare il coraggio di capire e amare chi è diverso da noi.
Se appassì lo scrittore, fiorì la sua persona, conclude Wendy Moffat. A quarant’anni dalla morte, la sua figura intera, qui ricomposta sulla scorta di numerosi inediti, integra la classica (e in un certo senso insuperabile) biografia di P.N. Furbank, rinnovando la nostra ammirazione per lo scrittore, per il grande osservatore che sembrava provare più piacere a osservare la vita che a prendervi parte. Timido ed enigmatico, consciamente fu l’esatto contrario dello scintillio di Oscar Wilde: seducendo con un carisma «introverso», dava la sensazione a chi parlava con lui di essere ascoltato con un’intensità tale da sentirsi costretto a dare il meglio di sé. Forster non era una natura coraggiosa, ma questo potrebbe definire il suo genio. Era importante la sua vita interiore. Diffidenza e insicurezza avevano affinato un’immaginazione già molto vivida, i suoi romanzi sono candidi e spesso ironici, ma non sono mai freddi.


Forster era un uomo di grande forza interiore, scriveva l’amico Christopher Isherwood, «forte perché flessibile, guidato più dall’amore che dalla volontà. L’eroe antieroico, con gli occhi azzurri da bambino e la figura incurvata del vecchio».

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