Non capisco perché tra le celebrazioni dei 150 anni dell’Unità d’Italia abbiano infilato la nascita del Partito comunista italiano, allestendo a Roma una mostra che si chiude domani. L’alibi forzoso è che quest’anno cadono i 90 anni della sua fondazione. Ma è assurdo che tra tutti i partiti italiani l’unico che abbia avuto un suo spazio d’onore nelle celebrazioni patriottiche sia proprio il partito che per quasi tutta la sua storia ha tifato - in politica, economia, corsa alle armi e allo spazio e perfino nello sport - per l’Unione Sovietica e l’internazionale comunista, contro l’Italia, l’Europa e l’Occidente.
E che abbia considerato l’amor patrio un brutto vizio nazionalista e fascista. Le bandiere rosse coprivano i tricolori, perché «i proletari non hanno patria» e i compagni sovietici erano più fratelli dei connazionali non comunisti. Però vi devo confessare una cosa: fuori dal contesto improprio delle celebrazioni patriottiche, ho visitato la mostra dedicata al Pci con una punta di commossa e perversa nostalgia. Erano meglio allora i compagni, dei loro eredi di oggi nella sinistra settaria, giudiziaria e giacobina. Al di là dei sogni totalitari e della servitù sovietica, al di là del fanatismo comunista e della demagogia sindacale, la gente che vi militava merita rispetto, aveva una sua autenticità popolare. Credevano davvero nelle loro idee e si sacrificavano per il partito, avevano una coerente e genuina passione ideale, lottavano per la giustizia sociale, erano lavoratori onesti e avevano una loro moralità e serietà.
Poco senso critico, molta fierezza popolare. E i loro inni erano belli e vibranti, quasi come quelli fascisti; pieni d’umanità e fervore per il domani. Fu una fortuna per noi e per loro che non andarono al potere: altrimenti oggi li malediremmo.
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