Egitto, sentenza da regime: condannati a morte in 529

Una sentenza degna della Corea del Nord, della Cina di Mao o della Russia di Stalin. Un grappolo di 529 condanne a morte comminate in un colpo solo, al termine di un fulmineo e sbrigativo, processo a 545 militanti dei Fratelli Musulmani.
Tre anni dopo le «primavere arabe» l'unico frutto tangibile di Piazza Tahrir sembra quella terribile sentenza. Ad emetterla ci pensa il tribunale di Minya chiamato a giudicare i colpevoli dell'assalto a una caserma messo a segno lo scorso agosto in questa regione a sud del Cairo e conclusosi con l'uccisione di un ufficiale di polizia. I portavoce del governo arrivato al potere dopo il golpe di luglio si affannano ovviamente a far capire che si tratta di condanne provvisorie, destinate a venir riviste in appello. Quel grappolo di condanne resta comunque un frutto fuori stagione anche per un Egitto abituato a decisioni autoritarie. Un verdetto così non s'era mai visto neanche ai tempi della spietata repressione dei Fratelli Musulmani lanciata da Nasser. E in tempi recenti, ricorda Amnesty International, non s'è mai visto neppure nelle peggiori dittature. E non è finita: c'è un altro spezzone del processo con 700 imputati.
Così quella sentenza, emessa dopo un processo in due soli atti iniziato sabato e conclusosi ieri diventa il simbolo della paradossale svista di chi tre anni fa scambiò un colpo di stato per una rivoluzione. Il primo a entusiasmarsi fu un Barack Obama convinto di poter abbandonare al proprio destino l'ormai scomodo Hosni Mubarak per puntare sui militari e su un movimento dei Fratelli Musulmani pronto, nelle illusioni dei think tank democratici di Washington, ad abbracciare un Islam democratico. Dietro Obama marciarono entusiasti l'Europa e gli illusi di tutto il pianeta. Le conseguenze eccole qua. Dopo il tentativo dei Fratelli Musulmani d'instaurare una dittatura integralista, dopo il golpe con cui i militari spazzarono via il regime islamista del Presidente Morsi e dei Fratelli Musulmani, l'Egitto fa i conti con i diktat del nuovo regime militare. Un regime al cui confronto quello di Mubarak sembrava una democrazia permissiva. L'aspetto più stupefacente è il silenzio di Obama. Il presidente americano arrivato in Europa per incoraggiare gli alleati a seguirlo sulla strada della contrapposizione a Putin si guarda bene dal ricordare che l'involuzione egiziana è figlia dei suoi errori. Perseverando nell'ambiguità Washington rischia però di ritrovarsi prigioniera del caos egiziano. Presto Casa Bianca e Congresso dovranno decidere se ripristinare gli aiuti militari «congelati» dopo il golpe o assistere all'avanzata dei gruppi terroristi del Sinai diventati sempre più incisivi dopo il giro di vite ai danni dei Fratelli Musulmani. Fornire elicotteri da combattimento Apache nell'ottica della lotta al terrorismo a un regime che dispensa mezzo migliaio di condanne a morte in un processo farsa rischia di essere difficilmente giustificabile. Anche perché il generale Abdel Fatah al-Sisi, artefice del golpe di luglio e grande favorito nella corsa alla prossima presidenza non è conosciuto come un amico dell'Occidente e dell'America, ma piuttosto come un fedele e zelante alleato dell'Arabia Saudita.

E quelle cinquecento condanne a morte sono solo l'ultimo segnale della spietata lotta tra due grandi satrapie sunnite. La lotta per l'egemonia politica in Medio Oriente che contrappone i fondamentalisti wahabiti legati alla casa saudita e il movimento dei Fratelli Musulmani finanziato e protetto dall'emirato del Qatar.

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