Europa in crisi, la Svizzera schiera i soldati

Scontri di piazza alla frontiera meridionale e a quella occidentale, lunghe colonne di profughi che, spaventati dalle violenze e dalle sempre più precarie condizioni economiche, cercano riparo al di là del confine elvetico. È l'incubo nascosto della Svizzera, che oggi come mai teme l'invasione e prepara l'esercito. Nel mese di settembre i reparti dell'Armata rosso-crociata impegnati nelle grandi manovre (più o meno 2000 uomini) hanno dovuto fare fronte a uno scenario fino ad ora mai pianificato dagli strateghi dello Stato maggiore: l'implosione dell'area euro, con il susseguente caos in Nord Italia e in Francia. Rispondendo al settimanale Der Sonntag, che ha reso noti i dettagli dell'esercitazione, il ministro della difesa Ueli Maurer ha calcato i toni: «Non escludo che nei prossimi anni avremo bisogno dell'esercito». Non solo perché la situazione sociale del resto dell'Europa si fa sempre più precaria. Ma anche perché gli Stati dell'area, sotto il peso della crisi finanziaria, rinunciano a rinnovare strategie ed armamenti. Risultato: i militari svizzeri si sentono sempre più soli e in difficoltà nella difesa della fortezza Helvetia (questo il nome della Svizzera nelle ultime manovre). Come prima contromisura concreta il comandante in capo delle forze armate ha annunciato un piano per la creazione di quattro battaglioni di polizia militare pronti a presidiare le frontiere.
Tanta drammatizzazione ha certo a che fare con la tradizionale prudenza dei nostri vicini svizzeri. Ma c'entra anche, dicono gli osservatori più maliziosi, con le esigenze del ministero della Difesa di Berna che deve convincere opinione pubblica e Assemblea federale a stanziare i finanziamenti per gli investimenti dei prossimi anni. Prima di tutto i 5 miliardi di franchi ogni 12 mesi necessari a mantenere una forza da 100mila uomini. Senza contare i soldi necessari per l'acquisto dei nuovi costosi aerei da combattimento, gli svedesi Gripen (Grifone).
D'altra parte, che nell'Europa della crisi possano scatenarsi meccanismi sino ad ora imprevedibili è dimostrato da un dato pubblicato ieri in Spagna: dal gennaio 2011 un milione di persone ha lasciato il Paese in cerca di lavoro. Più di 400mila solo nei primi 9 mesi del 2012: 365mila ex immigrati che nella penisola iberica non riuscivano più a campare, a cui si sono aggiunti 53mila cittadini spagnoli.
Quanto alla Svizzera, anche lei sente il peso delle difficoltà economiche, sia pure in modo del tutto diverso dai suoi vicini. Da mesi il Paese è diventato uno dei protagonisti mondiali del mercato dei cambi. Per proteggere le industrie dal continuo apprezzamento del franco, che rischia di paralizzare l'export dell'industria locale, già in gravi difficoltà, la Banca centrale ha fissato un cambio di 1,20 con la moneta unica. Ma per difenderlo è costretta ad acquistare enormi quantità di euro, che poi negozia su tutte le principali piazze finanziarie. Anche la notizia che la principale azienda greca, la società che imbottiglia la Coca Cola, ha deciso a scopi precauzionali di trasferire la propria sede in Svizzera, è stata accolta quasi con timore. La paura è che si scateni un effetto a valanga e che la corsa alla Confederazione diventi inarrestabile. Da un lato questo peggiorerebbe la situazione delle economie in crisi, cosa che tra Lugano e Zurigo nessuno si augura.

Dall'altro finirebbe per attirare ancora una volta l'attenzione delle autorità Ue sul sistema fiscale elvetico, mettendo a repentaglio la precaria pace con l'Europa. E se c'è una cosa di cui l'esercito di gnomi svizzeri ha paura è che Bruxelles torni a fare la voce grossa contro il «paradiso fiscale» svizzero.

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