Il ricatto islamico: prigioniere convertite

I Boko Haram mostrano in un video le 300 ragazze col velo: "Se le rivolete, dateci i nostri compagni detenuti"

Il ricatto islamico: prigioniere convertite

Il peggio s'è puntualmente avverato. Come Il Giornale aveva previsto la campagna #bringbackourgirls, propagatasi viralmente grazie ai tweet di Michelle Obama, ha conseguito, purtroppo, il più deleterio dei risultati. Da ieri le 276 ragazze rapite dai terroristi islamici Boko Haram non sono più semplici ostaggi, ma armi di ricatto globale. Il video di 17 minuti diffuso da Boko Haram parla chiaro. Emotivamente la parte più inquietante è quella in cui si vedono le ragazze coperte dal velo integrale riunite in una radura sotto le bandiere del terrorismo islamista. Una radura dove vengono costrette a recitare i sette versi di Al Fatiha, la prima shura del Corano simbolo - attraverso l'evocazione di Allah - dell'avvenuta conversione. Il contenuto più rilevante del video è però il messaggio lanciato in sottofondo dalla voce di Abubakar Shekau, capo indiscusso di Boko Haram. Shekau - che sarà anche pazzo e fanatico, ma non è certo scemo - coglie al volo l'imperdibile opportunità offertagli dalla moglie di Obama e dai disincantati sostenitori della campagna. Non a caso pretende di scambiare le 276 ragazze con i propri militanti detenuti nelle carceri nigeriane.

Considerare l'offerta un successo non è solo ingenuo, ma assolutamente criminale. Un'eventuale trattativa poteva passare attraverso altri canali, molto più discreti e indolori. Uno poteva essere quello dei missionari della Chiesa cattolica capaci in Africa di dialogare sottotraccia con le formazioni più truci e disparate. Viste le minacce di vendere le ragazze come schiave nei paesi confinanti si potevano anche contattare le organizzazioni umanitarie specializzate nel «riacquisto» e nel «riscatto» degli esseri umani caduti vittima di questa odiosa tratta. Ma si poteva anche scegliere di rivolgersi ai mediatori già utilizzati in passato per ottenere il rilascio di alcuni ostaggi occidentali caduti nelle mani di gruppi terroristi d'ispirazione islamista in altri paesi africani. Usando questi strumenti silenziosi anziché la sguaiata esibizione di solidarietà «virtual chic» celata dietro ai tweet di adesione alla campagna l'Occidente avrebbe evitato di trasformare Shekau nel protagonista di una trattativa internazionale. Grazie a #bringbackourgirls lui e il suo manipolo di assassini assurgono, invece, a fama internazionale e si ritrovano nella condizione di poter ricattare il governo nigeriano.

Nello stesso tempo sale, in base ad un'inevitabile logica di mercato, il prezzo politico e commerciale dei 276 ostaggi nelle loro mani. Ma i danni non finiscono qui. La Nigeria non brilla per il rispetto dei diritti civili e umani, ma costringerne il governo a prestar orecchio ai ricatti del suo peggior nemico non contribuirà certo a rafforzare la stima e il rispetto per gli alleati occidentali. Per non parlare dei rischi legati a un possibile effetto emulativo. L'indignazione degli occidentali per chi, al pari dei Boko Haram, è convinto di uccidere nel nome di Dio, vale assolutamente zero. I milioni di tweet scatenati dalle loro azioni vengono al contrario letti e interpretati come una sorta di scientifico indicatore dell'efficacia dei propri mezzi. E rafforzano la convinzione criminale che il rapimento di 276 ragazzine sia l'arma migliore per conquistare notorietà, piegare l'Occidente e costringerlo a un infamante negoziato pubblico. In una prospettiva futura diventa poi difficile e ipocrita non interrogarsi sui possibili legami tra la viralità dell'indignazione e quella dell'orrore che la genera.

Cosa faranno Michelle Obama e i milioni di convinti sostenitori di #bringbackourgirls se in Siria, Libia e Afghanistan e su altri palcoscenici dell'orrore il rapimento e l'esibizione di innocenti scolarette diventeranno, come a suo tempo le decapitazioni in Irak, prassi comune? Perché a quel punto un “tweet” non basterà neppure a ripulirsi la coscienza.

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