Vi racconto l'inferno di Aleppo

Con i soldati di Assad che rastrellano i miliziani nella città simbolo della guerra civile

Vi racconto l'inferno di Aleppo

Vampate. Boati. Squarci di luce e di morte nella trama oscura della notte. I soldati attendono silenziosi, addossati al muro, raccolti intorno al gracchiare delle radio. Il colpo del tank è un boato ovattato seguito da nubi di fuoco, da un fragore di terremoto che scuote la terra, artiglia le viscere. Poi il ringhio secco dei kalashnikov, una grandine di traccianti nell'epicentro della esplosione. E poi gli altri. Quelli dei ribelli. Quelli che incrociandoli disegnano scie rossastre sulle nostre teste. Il capitano Hussein tasta il giubbotto antiproiettile, cala l'elmetto sulla fronte, gira nervoso la manopola della radio. Conta i minuti. Tra un po' l'alba ricamerà il cielo, s'insinuerà tra i falansteri diroccati del quartiere di Maisaloun, illuminerà giardini d'una scuola diventata campo di battaglia. Fra poco toccherà a lui. E a noi. La radio sputa un gracidio arabo. Hussein infila il colpo in canna, alza la mano - «Ialla, andiamo». Ombre in divisa, profili di elmetti e kalashnikov, cassoni di pick up ricolmi d'armati. Capitan Hussein tiene il volante, sorride, ti bussa sull'elmetto. Indica scheletri di cemento e macerie. «Sniper… testa giù». Ingrana la prima, la seconda, la terza. Schizza come una biglia impazzita nella retta buia dell'asfalto. S'infila a testa bassa nel concerto d'esplosioni e proiettili tirandosi dietro un convoglio di auto e armati, divorando la strada e le sue voragini, zigzagando tra cavi penduli e piloni abbattuti. Un minuto lungo un'eternità, ma più rapido dell'occhio dei cecchini.

Ora il convoglio è tra i piloni del cavalcavia, proprio di fronte all'istituto tecnico informatico occupato dai ribelli e trasformato nel cuore della battaglia. Ora il quadrato di cemento situato nel centro di Maisaloun sembra una centrale elettrica impazzita. Tra le mura rimbombano spari ed esplosioni, da finestre e balconi s'incrociano proiettili e fiammate. Hussein schizza dentro. Una trentina di soldati con i kalashnikov in pugno lo seguono. Sono le sei del mattino e dentro infuria la battaglia. Un crescendo di colpi che lentamente si sposta, muove verso i giardini affacciati sulla strada alle spalle dell'edificio. Poi di colpo il silenzio. Rotto solo dai colpi dei cecchini di Maisaloun. Hussein s'affaccia. Fa segno. È tempo d'entrare. Dentro è odore acre di cordite, tanfo di sudore, lezzo d'escrementi. Hussein ti fa strada, fra mura sbrecciate dal piombo, vetrate infrante, porte divelte. Il corridoio è un tappeto di bossoli, calcinacci. Granate inesplose. Sul muro una scritta araba: «Gruppo combattente brigata dell'Esercito Libero di Siria». Hussein la indica, ripete il suo mantra preferito. «Terroristi, Al Qaida, distruzione». Ad ogni stanza infila la testa, indica registri bruciati, archivi scardinati, scrivanie divelte.

Ora è nel giardino, gira l'angolo, t'accoglie nell'orrore. Loro i «terroristi», i «ribelli», i «nemici» sono otto corpi crivellati, otto volti congelati in un ghigno di dolore, terrore, agonia. «Quando sono usciti dalle stanze, li abbiamo spinti verso il giardino. Lì oltre i cancelli avevo mandato un altro gruppo di uomini. Li abbiamo inchiodati mentre cercavano di scavalcare e fuggire. Abbiamo ucciso questi otto, altri quaranta sono scappati portandosi dietro i feriti. Ma non andranno lontano». I segni dell'imboscata sono ovunque. Gli schizzi di sangue sono affreschi vermigli sul muro di cinta. Lo zampillio di una tubatura sforacchiata cola sulla nuca fracassata di un ribelle, trascina colate di cervella e sangue in una pozza vermiglia. Un soldato si china. Con una mano raccoglie un kalashnikov, con l'altra una gamba troncata all'altezza del ginocchio. La maneggia come un ramo secco, l'allinea accanto alle armi e ai caricatori strappati ai cadaveri. Un altro rivolta i corpi a pedate, li guarda in faccia, urla «Al Qaida, terroristi». A vederli non si direbbe. Non hanno barboni, nè bandane inneggianti all'Islam. I loro volti non sono quelli di ragazzini fanatici, ma di trentenni stempiati con il capello curato. La barba sfatta non è quella di un fanatico, ma di un combattente senza troppo tempo per il rasoio. Non sembrano i caduti di un'armata brancaleone, ma i coscritti di un esercito con tutti i crismi. Ribelli ben armati e ben riforniti con poco da invidiare, armi pesanti e aviazione a parte, a chi li ha snidati e uccisi. Indossano mimetiche e giberne ricolme di caricatori e granate. Sulle spalle esibiscono il simbolo della “Liwa Ahrar Suria”, una delle unità dell'Esercito Libero di Siria, la principale organizzazione armata ribelle. Accanto ai soliti kalashnikov e alla gamba mozzata fa bella mostra uno Steyr, un fucile d'assalto austriaco usato anche da alcuni reparti sauditi. Un'arma difficile da trovare sui campi di battaglia mediorientali che testimonia, assieme ad una manciata di granate a frammentazione statunitensi, l'impegno del regno wahabita nelle forniture di armamenti ai nemici di Bashar Assad. Elementi e indizi che rafforzano in Capitan Hussein e nei soldati protagonisti di questa battaglia la convinzione di essere al centro d'una cospirazione internazionale.

«L'Arabia Saudita e il Qatar vogliono regalare il nostro Paese al fondamentalismo – s'infuria Hussein – ma hanno sbagliato i conti. Questa non è la Libia. Gli è andata bene perché si sono infiltrati ad Aleppo mentre l'esercito non era in città. Ma ora siamo qui e devono fare i conti con noi. Ora stiamo ripulendo il centro e la Cittadella, poi passeremo alla periferia». Dopo l'offensiva di metà agosto che sembrava destinata a far cadere Aleppo l'armata ribelle sembra in effetti essersi impantanata. L'assalto alla scuola occupata di questo quartiere è solo l'ennesimo episodio di un'offensiva governativa che sta stringendo a tenaglia i quartieri della citta vecchia. Quartieri dove le cellule ribelli appaiono sempre più isolate, sempre più prive dell'appoggio popolare.

«Date retta a me – azzarda Capitan Hussein - a questa gente restano ormai solo un paio di settimane, poi dovranno scegliere se tornarsene verso la frontiera della Turchia da dove sono venuti o seguire i loro compagni sulla strada del Paradiso».

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