Basta con i pomodori cinesi spacciati per San Marzano e il maiale tedesco che diventa salamella mantovana. È l’urlo di battaglia che da anni unisce le associazioni dei consumatori e quelle dei produttori agricoli. Finora è stato solo un sogno. Da ieri c’è una norma che fa ben sperare: col semaforo verde in commissione Agricoltura della Camera, è legge l’obbligo di indicare nell’etichetta la provenienza delle materie prime contenute negli alimenti che acquistiamo.
Sembra incredibile, ma fino a ieri, nel Paese della mozzarella, del prosciutto e del Parmigiano, c’era libertà di firmare con l’allettante marchio «made in Italy» un latticino figlio di mucche dell’Europa dell’Est, senza prendersi il disturbo di avvisare l’acquirente. Non è tutta colpa delle aziende alimentari o della grande distribuzione: il vero ostacolo è a Bruxelles. I tentativi di imporre etichette veritiere si sono sempre arenati sulle sabbie degli interessi nazionali (e non certo quelli italiani).
Eppure si tratta di una questione non solo commerciale, ma anche di sicurezza. Basti pensare al caso della carne di maiale tedesca alla diossina. Lo scandalo ha fatto suonare l’allarme rosso in tutta Europa proprio perché le carni degli allevamenti tedeschi finiscono sotto mentite spoglie nelle salsicce di almeno una ventina di Paesi europei. Con l’etichetta «trasparente» il consumatore avrebbe potuto difendersi da solo alla prima notizia di contaminazione del cibo, semplicemente evitando di acquistare salumi la cui filiera parla anche solo in parte in tedesco. E l’Unione europea è stata la prima a riconoscere che questo è un buon sistema: lo ha fatto tutte le volte che c’è stato uno scandalo. Ad esempio dopo il caso mucca pazza è arrivato l’obbligo di indicare la provenienza della carne bovina. E le mille denunce di oli adulterati hanno spinto una norma analoga sulle olive.
Eppure nei consigli dei ministri europei è sempre piovuto il veto della maggioranza dei Paesi e la richiesta italiana non è mai passata. Questo perché, ovviamente, terre con una tradizione agricola più debole della nostra, marchi meno rinomati ed esportazioni inferiori (le nostre ammontano a 51 miliardi di euro l’anno), hanno tutta la convenienza a continuare a vendere i loro prodotti «sotto copertura».
La legge approvata ieri dunque è il primo vero tentativo dell’Italia di forzare la mano. «Ora dobbiamo armonizzarci con Bruxelles - dice soddisfatto il ministro Galan - ma smettiamola di dire che l’Europa non ce la farà passare. Tra l’altro è l’unica legge votata all’unanimità nella legislatura».
Dal mondo agricolo è arrivato un coro di consensi. A partire da Coldiretti, che ha ricordato come in un piatto su tre il made in Italy finora è stato falsificato. Per l’altra associazione agricola, la Cia, «l’etichettatura permetterà all’Italia di recuperare 13 milioni al giorno».
Ora servono i regolamenti attuativi.
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