«Faccio bere i Grandi Ma il mio sogno è vivere fino a 120 anni»

Giancarlo Aneri ha un sogno e una certezza. Da capitano d’azienda, pragmatico come può esserlo soltanto uno che da figlio di un ferroviere è arrivato a muoversi nel mondo con la disinvoltura di un diplomatico, la certezza la svela subito: «Noi italiani, la qualità dei prodotti l’abbiamo sempre avuta. Ma ora, grazie a un governo che dimostra di saper parlare con gli imprenditori, abbiamo imboccato la strada giusta per costruire un Sistema Paese in grado di avere un futuro». Quanto al sogno, «quello me lo tengo per ultimo, perché è più intimo della certezza», svicola con una veronica da torero. Ma lo fa sorridendo, da gran signore qual è.
Già, chi è Giancarlo Aneri, oltre al produttore di vini che ha fatto brindare gli Obama, nella loro prima cena da presidente e first lady, al ristorante La Spiaggia di Chicago, con vino Prosecco (ovviamente il suo)?
«Sono uno dei tanti connazionali che ho conosciuto in giro per il mondo in trent’anni di viaggi. Uno che ce l’ha fatta non foss’altro per il motivo che soprattutto nel mio settore, quello dell’alta qualità per la ristorazione (oltre al vino, produce anche olio extravergine e caffè, ndr), oggi noi italiani siamo indiscutibilmente i migliori».
Qualcuno - di solito gli invidiosi - potrebbe ricordarle che la modestia...
«Non è questione di modestia o presunzione. È una constatazione, un dato di fatto. Siamo i migliori perché veniamo da tanta gavetta. Conosco ristoratori italiani, da New York a Singapore, che partiti come camerieri imbarcati sulle navi, ora dettano legge su che cosa si intende per mangiare e bere bene. Sono diventati un parametro».
Questo loro. E lei?
«Ricordo ancora il mio primo viaggio negli Usa, da giovane venditore, trent’anni fa. Alberghi modesti e, per restare nelle spese, nemmeno il lusso di uno spedizioniere. Mi portavo le bottiglie appresso, nelle valigie».
E adesso?
«Ho l’orgoglio di poter entrare, da fornitore, da cliente e oggi anche da amico, nei migliori 50 ristoranti di Manhattan - così come in quelli di Londra o di Hong Kong - che hanno i miei prodotti nelle loro carte dei vini. Anche nel locale del francese Alain Ducasse, al St. Regis di New York, il mio Amarone è accanto allo Château Margaux. Ormai giochiamo ad armi pari. Sia perché abbiamo i prodotti e la capacità, sia perché - ripeto - il governo ci sta mandando segnali chiari».
Per esempio?
«Quello di saperci finalmente seguiti e protetti, come sta dimostrando il ministro delle Politiche agricole Luca Zaia. Tanto che mi sento di poter dire che nel prossimo futuro potremo fare il nostro mestiere con soddisfazione sempre più crescente».
Soddisfazione che per lei è?
«Non tanto vendere una cassa di vino in più - anche se ovviamente conta - quanto l’orgoglio di rappresentare il mio Paese in ogni angolo del mondo, piantando ogni giorno una bandierina tricolore là dove fino a ieri non c’era. O ancora l’orgoglio di essere considerato parte di quell’universo di cose belle e buone che, partendo dal patrimonio artistico, il primo al mondo, arriva al cibo e al vino. Del resto è anche per queste cose che ovunque, a ogni latitudine, ci vogliono bene».
Tanto per non sbagliare, lei il messaggio lo ha fatto arrivare anche ai grandi della Terra, al G8 dell’Aquila, facendo trovare loro in camera una cassa di Amarone, personalizzata con tanto di nome scolpito nel legno.
«Certo, bisogna sempre puntare in alto. Non a caso al G8 la scelta cadde sull’Amarone, grandissimo vino veneto che non ha nulla da invidiare né ai blasonati cru francesi né ai migliori toscani o piemontesi. In quella sede di alta diplomazia e politica, con quei destinatari, era l’ideale».
Perché?
«Perché con quel profumo che percepisci anche a un metro di distanza, appena lo stappi, è un vino straordinariamente ruffiano. Perdipiù è un rosso che piace alle donne tanto quanto agli uomini. Insomma, fa stare bene la gente insieme».
Così come lei, tra un viaggio e un altro, ama starsene il più possibile in famiglia.
«La mia stessa azienda è un affare di famiglia. Vi si intersecano, o meglio si abbracciano, lavoro e affetti. Oltre a me, presidente, ci sono mia moglie Leda, consigliera, alla quale ho dedicato l’ultimo bianco e mio figlio Alessandro, amministratore delegato, che con il diminutivo Ale è finito sull’etichetta del Pinot nero. Mia figlia Stella ha dato il nome all’Amarone e ora che è nata la prima nipotina, Lucrezia, dovrò creare un altro vino da intitolare a lei».
Ecco, qui la volevo. Visto che siamo finiti sul personale, le ricordo che ha ancora un impegno. Siamo alla fine dell’intervista e dopo avermi detto delle certezze mi deve finalmente rivelare anche qual è il suo sogno.
«Semplice, vivere almeno fino a 120 anni...».
Si accontenta di poco.
«...mi lasci finire, però.

Non per amor proprio o per quello dei record, quanto per poter tornare ancora una volta, a quell’età, a New York, a visitare un museo che ancora non avrò visto, a godermi lo spettacolo della gente per strada, e magari a trovare un cliente. Uno nuovo, ovviamente. Un’altra bandierina da piantare».

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