Fece causa al Comune nel ’95 Prossima udienza nel 2009

Stefano Zurlo

da Milano

Tre anni di «letargo». Trentasei mesi esatti da un’udienza all’altra: dal 5 luglio 2006 al 10 luglio 2009. Tre anni di attesa, a braccia conserte. Capita alla Corte d’appello di Milano e pazienza se il presidente della Repubblica ha appena tuonato contro l’interminabile lunghezza dei processi. Lo scandalo è sotto gli occhi di tutti, ma modificare i calendari dev’essere quasi impossibile. Accelerare, proprio non si può.
Così una causa di risarcimento, tenebrosa nei contenuti ma semplice come un compitino nello svolgimento, diventa una sfida al tempo. Tutto comincia il 17 settembre 1995 quando un signore residente a Pioltello, comune dell’hinterland, va al cimitero sulla tomba del padre. Routine. E invece no, ecco la sorpresa, è il caso di dire macabra: la foto del defunto è sparita, la bara non c’è più, l’ambiente è cambiato. Inizia un’affannosa ricerca. La soluzione è all’istituto di Medicina legale a Milano in una cassetta di zinco: i poveri resti sono stati inspiegabilmente e crudelmente tagliati, poi messi in quel contenitore. Il poveretto vede ciò che resta del genitore e sviene.
Quando si riprende, presenta una denuncia penale che verrà archiviata. Nel ’96 il passo successivo: un processo civile contro il Comune che ha smarrito la pietas. L’avvocato Rosario Alberghina quantifica la richiesta del suo cliente, 50mila euro, e la sottopone al giudice. È la normale trafila seguita da migliaia di dibattimenti a Milano come in tutta Italia.
Il giudice studia le carte e dispone una perizia per valutare il danno biologico ed esistenziale subito dallo sventurato. È l’unico inciampo in un iter veloce: non servono interrogatori, non c’è bisogno di pareri specialistici. Tre udienze bastano e avanzano.
Con i ritmi del tribunale si arriva comunque al 2003. La sentenza assegna solo 10 mila euro ai familiari del defunto, sfrattato così bruscamente: 5 mila al figlio, altrettanti alla vedova.
È l’ora dell’appello. Sulla carta ancora più rapido. Le udienze si contano sulle dita di una mano: il 5 luglio 2006 il giudice discute il caso con i legali. Poi il magistrato guarda sull’agenda la prima casella libera per l’appuntamento successivo, in pratica l’ultimo prima della sentenza: quello riservato, come si dice in gergo, alla precisazione delle conclusioni.
Ecco la data: 10 luglio 2009. Alberghina, forse convinto di non aver capito bene, chiede conferma: sì, è proprio così, non accadrà più nulla fino al 10 luglio 2009. Inutile insistere. Il verdetto non arriverà prima del 2010. A quindici anni dal fatto.
Possibile? Tre lustri per gli spiccioli di una contesa di paese? Intanto Giorgio Napolitano punta il dito contro «l’eccessiva» lunghezza dei dibattimenti. Penali e civili, c’è solo l’imbarazzo della scelta. Le statistiche, impietose, dicono che al 30 giugno 2004 c’erano in Italia 8.942.932 processi pendenti. E di questi 3.365.000 civili e 5.580.000 penali. Numeri che non hanno bisogno di commenti.
Sempre gli esperti spiegano che un processo civile può andare avanti, in primo grado, da 300 a 1500 giorni.

Dipende dai luoghi. Anzi, a rileggere i passi salienti di questa storia c’è da pensare che le tabelle pecchino per ottimismo. Soprattutto, non danno le istruzioni per l’uso e non spiegano che fra un’udienza e l’altra ci vogliono tre anni.

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