La Fiamma si spegne senza lacrime La Russa: nasce il partito degli italiani

L'ultimo comgresso di An. Solo Menia "il triestino" dà voce al dissenso e strappa un po’ di commozione Ma è solo una scintilla per un’assise tranquilla, già scritta e un po’ sbracata. Pioggia di citazioni sul palco: da Darwin a Nietzsche passando per l’acqua Ferrarelle. La Russa: "Nasce il partito degli italiani". Matteoli: "Niente dualismo e correnti, un solo leader"

La Fiamma si spegne senza lacrime 
La Russa: nasce il partito degli italiani

Roma Ecco, i congressi sono così: come serbatoi di benzina. Contenitori apparentemente inerti e quieti, ma poi basta un fiammifero per farli divampare. Ieri, alla fiera di Roma, la scintilla che a metà pomeriggio ha fatto deflagrare la platea aveva un nome: Roberto Menia. Fino ad allora tutto procedeva senza imprevisti: interventi buoni ma senza impennate, nessuna sorpresa, poche emozioni, platea leggermente sbracata, tiepida e apparente soddisfazione, un lento ma regolare decorso verso un epilogo già scritto, baci e abbracci nei corridoi - «ciao come stai, ti ricordi?» - più un happening che un battesimo. Poi è arrivato lui, «il triestino» di ferro (anche se è nato a Pieve di Cadore), con un intervento in crescendo: mai gridato, ma pieno di passione e di contenuti dirompenti, un discorso in cui il sottosegretario di An ha detto quello che moltissimi pensavano, ma nessuno esprimeva, pieno di contenuti politici «scomodi» ed è venuta giù la sala: applausi a scena aperta, ovazioni, standing up quando scende. Prima di raccontarlo, però, bisogna descrivere la scena.
Fiamma gigante Intanto è la fine di una storia, l’ultimo congresso, anche se non bisogna dirlo così, perché suona male. Poi ogni cosa va letta per contrario. È l’ultimo atto della Fiamma, e allora sulla porta della Nuova fiera di Roma c’è una fiamma alta dodici metri, si vede anche dagli aerei che atterrano. È l’assise in cui si chiude una tradizione, e allora il palco è grande come un bastimento, incastonato di piccoli oblò con l’emblema di An (anche se dicono che dovrebbe essere un ponte tra il vecchio simbolo e il nuovo, tra il partito di Fiuggi e il Popolo della libertà): tutta la scena, con tonalità azzurrine, è dominata da uno spirito paradossale, una sorta di «gigantismo minimale».
La Ferrarelle di Alessandra Appena arrivata Alessandra Mussolini infila una battutaccia: «Più che Fiuggi mi sembra Ferrarelle». Già. Sì, si chiude la bottega di An, Giorgio Almirante esce dalle carte bollate, ma rientra nella coreografia: espunto dal pantheon del documento fra le polemiche, e recuperato in corner con una delle trovate tempestive di Ignazio La Russa, che gli fa dedicare un video in apertura. Lacrime e applausi. In sala ci si arriva con una via crucis: un chilometro dal parcheggio a piedi, in mezzo alle passerelle lunari e ai vialetti tra i padiglioni, battuti da una tramontana implacabile fin dalla mattina.
I due leader (assenti) È un congresso strano: sulla carta ci sono due leader, ma in sala non ce n’è nemmeno uno. Silvio Berlusconi assente (volontario) per non rubare la scena; Gianfranco Fini che se ne va all’ora di pranzo, non si sa perché (una scelta istituzionale?), ma l’effetto è comunque strano. Servello fa un lapsus curioso quando saluta «il presidente del gruppo parlamentare Quagliariello» (ma Quagliariello è «solo» il vice azzurro di Gasparri). Per Renato Schifani un applauso tiepidissimo, e qualche sorprendente, sparuto fischio. «Ci sposiamo dopo 15 anni di fidanzamento», dice Italo Bocchino. Il viaggio verso il nuovo partito ha l’aria di un matrimonio combinato, con «un buon partito» in cui la sposa è rassegnata.
Evoluzionismo pidiellino Dal palco il nome più citato è quello di Charles Darwin ricordato - fra gli altri - da Italo Bocchino per rassicurare sul futuro: «Non sono i più forti a sopravvivere ma chi si sa adattare a condizioni nuove». I tormentoni ufficiali del congresso li conoscono tutti, ormai da giorni, e sono riassunti anche da La Russa: «Non è una nascita ma un nuovo inizio», «le nostre idee hanno trionfato», «la destra diventa più grande». «Nel nuovo partito c’è posto per due leader», come ripete il ministro Andrea Ronchi. Però... Però c’è un mal di pancia sotterraneo insospettabile, che si rivela in un primo momento quando prende la parola una colonna del vecchio Msi come il ligure Gianni Plinio. Il capogruppo in Regione è uno che viene dalla gavetta - vecchia guardia missina - sa parlare alle emozioni, è uno che stava in piazza nel 1970 quando negli scontri per non far parlare Almirante morì Ugo Venturini (la prima vittima nera).
Il trionfo di Plinio «il vecchio» Quando Plinio dice: «Entreremo nel nuovo partito con tutta la storia e i valori che ci sono propri e senza complessi di inferiorità nei confronti di chicchessia!», si sente vibrare il pavimento, e il calore che avvolge il vecchio leone sorprende un po’ tutti. Esco nell’atrio. Ugo e Riccardo, i due veterani che vendono le bandiere e i fazzoletti di An hanno finito tutta la merce, un migliaio di pezzi. Il gadget più venduto è il simbolo che sta scomparendo. Possibile? Solo amarcord? A metà pomeriggio Menia sale sul palco. Da lontano sembra Gerard Dépardieu da giovane: si presenta dicendo di essere uno di quelli «che non hanno condiviso il percorso» e subito si fa silenzio. Prosegue dicendo «io non ho l’ansia di sciogliermi nel nulla», e strappa la prima ola. Il tono di voce basso inizia a sollevarsi, lentamente: «Non mi piace essere un parlamentare nominato e non eletto», dice, ed è tripudio.
Menia e «i nominati» Menia spiega che si poteva arrivare al Popolo della libertà «con strade diverse, magari una federazione». Aggiunge di non essere convinto del «bipolarismo bipartitico», spiega: «Così si lasciano vaste praterie alla Lega». È il tasto giusto, viene giù la sala, qualcuno già si alza. Arriva la terza stoccata: «Io sono per il merito, perché venga scelto il più bravo, e non il più vicino alla luce». Poi un riferimento (critico) a Berlusconi: «Io non credo che il capogruppo possa votare per tutti!». Quando conclude dedicando il suo intervento «a quelli che prima di noi hanno seminato i frutti che noi abbiamo raccolto» viene giù la sala.
Giorgia, Nietzsche & Marinetti L’altro intervento più applaudito - non è un caso - è quello di Giorgia Meloni. Che tesse l’elogio della militanza, e ironizza sugli apologeti della società civile. Rivendica la presenza degli ideali «di destra» nel governo, e poi cita Nietzsche, per caricare il nuovo partito di antiche passioni: «Salteremo i lenti e i dubbiosi, sia il mio cammino la loro distruzione». Finale pirotecnico, con il manifesto del futurismo di Marinetti: «Ritti sulla cima del mondo, noi scagliamo una volta ancora, la nostra sfida alle stelle!». Finisce con la ministra stretta dai militanti, e persino dalla più giovane spettatrice, la nipotina di quattro mesi (figlia della sorella Arianna) che ha i suoi stessi occhi.

Il primo giorno finisce alle venti con i delegati in teoria sotto la tramontana. Qualunque destino attenda il Pdl, lo spirito della Fiamma continuerà ad ardere solo se i due leader (o almeno uno) capiranno le ragioni di quel mal di pancia sul bastimento di An.

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