Perdere si può anche perdere. E (se non ci si fa troppo l’abitudine) può essere un’esperienza utile e anche dignitosissima. L’importante è non perdere male. Ci permettiamo di ricordare alla Cgil questa regoletta, alla base delle relazioni sociali e anche personali, nei Paesi in cui vige la competizione, e quindi ormai da estendere a tutto il mondo aperto alla concorrenza internazionale. Il bad loser, chi non sa perdere, è il modello del reietto, di chi si pone fuori dalla convivenza civile. A Mirafiori si poteva anche combattere una sfida antiquata e senza speranze. E sappiamo quanto la segreteria generale del sindacato abbia tentato di evitare di imbarcarsi nel duello voluto dalla Fiom. Ma, una volta cominciata la partita, la sconfitta, prevista, inevitabile, poteva comunque avere una sua funzione. Poteva essere il punto di partenza per rifondare un pezzo di rappresentanza sindacale. E invece niente da fare. Non si discute, non ci si confronta, non si ragiona e via con la scorciatoia, via col ricorso alla magistratura.
Un malcostume italiano che non trova certo la Cgil isolata. Anzi: è un comportamento sempre più diffuso quello di ricorrere a un terzo, a un «giudice», una volta che si è persa la gara. Si pensi ai risorsi sugli esiti elettorali; o a quelli su decisioni aziendali, pubbliche o private; o alle impugnazioni delle gare d’appalto. Come se qualunque risultato non fosse mai garantito da uno svolgimento regolare della partita, qualunque essa sia. Mentre c’è sempre a disposizione un «terzo tempo» per correggere le cose.
Nel caso specifico, Cgil pensa alla Consulta, da investire sulla legittimità costituzionale dell’accordo di Mirafiori nel suo complesso e particolarmente delle parti che riguardano il patto sulle regole per gli scioperi futuri. Basta la minaccia di questa mossa per spegnere il cervello (politico, s’intende). Viene accantonata la prospettiva di rinascita attraverso il lavoro, faticoso, di riflessione su una strategia che ha portato a essere posti in minoranza e scaricati anche da gran parte dei tradizionali referenti politici, e la parola passa agli avvocati. Si è visto (ampiamente) nella lotta politica come funziona questo effetto narcotizzante: si smette di pensare e piano piano si perde il controllo anche delle proprie organizzazioni. Nelle relazioni industriali sarebbe ancora più distruttivo. Tra aziende e sindacati, anche se ciò dà fastidio a certi ideologi, il confronto ha il vincolo della concretezza: oltre certi limiti non si può rinviare, non fare, mediare. Gli accordi servono per dare un riferimento agli investimenti. Mentre è devastante la sola minaccia di un ricorso contro un accordo firmato da un'ampia rappresentanza sindacale e poi sanzionato anche da un referendum in fabbrica. Per fare in parte la figura di chi non sa perdere era già bastata la noiosissima radiografia del voto, andando a cercare la provenienza dei sì e dei no, come se i voti si pesassero e non si contassero. Ed era bastata anche la stucchevole e offensiva distinzione tra lavoratore e lavoratore. Arrivare anche al ricorso alla magistratura sarebbe la sanzione definitiva di questa serie di errori.
Le partite, insomma, devono finire, altrimenti non si passa mai al torneo successivo. I tifosi possono anche arrabbiarsi, ma conviene anche a loro che le partite finiscano. Altrimenti, ricorso dopo ricorso, le squadre non cambiano mai. Un po' come non cambiano mai i conduttori televisivi, eternamente reintegrati dai magistrati.
Alla Cgil potremmo suggerire un po’ di senso dell’umorismo e ricordare che, guarda caso, la stessa famiglia proprietaria della Fiat è scivolata nella tentazione del ricorso chiamando in causa la magistratura per rimettere in discussione un paio di scudetti del passato. E che gusto c'è a vincere in un'aula di tribunale un campionato già archiviato? Ecco, lo stesso gusto che ci sarebbe a fermare un investimento già programmato.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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