La figuraccia del dossier di Palazzo Chigi

Paolo Armaroli

Al pari dei suoi predecessori, Romano Prodi prima di assumere le funzioni di presidente del Consiglio ha prestato giuramento nelle mani del capo dello Stato. Per la precisione, ha giurato fedeltà alla Repubblica e di rispettarne lealmente la Costituzione. Ora, i suoi memorabili detti pronunciati a Shanghai sono suscettibili di una doppia interpretazione. Delle due, l’una: Prodi o non ha la più pallida idea delle disposizioni della nostra Carta repubblicana o se ne stropiccia allegramente. Ma prima di inoltrarci nel campo giuridico, riassumiamo il Prodi pensiero partorito in Cina riguardo alle incredibili dichiarazioni del suo consigliere economico Angelo Rovati, secondo il quale il documento su carta intestata della presidenza del Consiglio da lui inviato all’insaputa di Prodi a Tronchetti Provera per il riassetto di Telecom sarebbe farina del suo sacco.
A questo punto la Cdl, svolgendo a puntino il suo ruolo di opposizione, ha chiesto a Prodi di chiarire in Parlamento l’affare Telecom. La replica non si è fatta attendere ed è stata uno schiaffo bello e buono alla Costituzione. Eccola: «Ma stiamo diventando matti? Non c’è nessun elemento nuovo. Non esiste nessun piano Rovati o del governo, c’è piuttosto il tentativo di sviare l’attenzione, tirando in ballo l’esecutivo». Pare di sognare. Ma come, Rovati ammette la sua leggerezza e Prodi che ti combina? Da un lato sconfessa il suo consigliere economico ma se lo continua a tenere caro caro al proprio fianco. Dall’altro tenta maldestramente di allontanare l’amaro calice, consapevole che la miglior difesa è l’attacco, denunciando che si vuole pretestuosamente tirare in ballo il governo per sviare l’attenzione da chissà che.
A furia di negare l’evidenza e di ripetere che lui in Parlamento non intende andarci, Prodi si è messo contro tutti e appare un uomo solo. Si è messo contro l’opposizione, e questo può anche apparire del tutto normale. Il guaio è che si è messo anche contro la sua stessa maggioranza, che non fa mistero del proprio imbarazzo. Con il risultato che, pur di «salvare» Prodi, dà addosso senza tanti riguardi al suo consigliere. Così il diessino Cesare Salvi ha osservato che «se c’è stato un errore, se c’è stata una leggerezza, c’è sempre lo strumento delle dimissioni». E il suo collega di partito Vannino Chiti non è stato meno tenero: «Rovati non doveva mandare quel documento e non doveva farlo su carta intestata». A riprova, se mai ve ne fosse bisogno, che da noi a volare sono solo gli stracci.
Con buona pace di Prodi, la Costituzione parla chiaro. Stabilisce, nell’art. 64, che «i membri del Governo, anche se non fanno parte delle Camere, hanno diritto, e se richiesti obbligo, di assistere alle sedute. Devono essere sentiti ogni volta che lo richiedono». Ne consegue che i ministri e, se del caso, il presidente del Consiglio non possono fare spallucce e rifiutarsi di recarsi in Parlamento. Il presidente della Camera, Fausto Bertinotti, ha già convocato per martedì prossimo la conferenza dei capigruppo. E in tale sede la Cdl avrà buon gioco. Difatti, a norma del regolamento di Montecitorio, l’opposizione dispone del venti per cento dei tempi parlamentari.

Perciò, di buon grado o no, Prodi dovrà presentarsi in Parlamento o delegare un suo ministro. La morale della favola è presto detta: per salvare la faccia, Prodi poteva fin da subito fare buon viso a cattivo giuoco. E invece ha rimediato l’ennesima figuraccia.
paoloarmaroli@tin.it

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