Hugo Cabret, il film che Scorsese confeziona basandosi sul best-seller di Brian Selznick "The invention of Hugo Cabret", è un trattato cinematografico sulla meccanica dei sogni. Ha per protagonisti dei bambini ma non è un film rivolto ad un pubblico di bambini.
Siamo negli Anni Trenta alla Stazione dei treni di Parigi. E’ qui che è costretto a vivere nascosto, una volta divenuto orfano, il dodicenne Hugo Cabret; all’insaputa di tutti si occupa di far funzionare i tanti orologi di questo luogo al posto dello zio, che da qualche mese ha fatto perdere le sue tracce. Hugo sopravvive con qualche furto di cibo e coltiva il sogno di riparare un piccolo robot antropomorfo che è l’ unica cosa rimastagli del padre. A questo scopo sottrae strumenti di lavoro e piccoli pezzi meccanici da un chiosco di giocattoli, gestito da un triste e scorbutico vecchio signore che un giorno lo scopre sul fatto. L’incontro-scontro tra il ragazzino e l’anziano è il congiungersi di due ingranaggi che hanno smarrito il senso del proprio funzionamento. Dal loro accostarsi prenderà vita il movimento del film e, più ancora, la perfetta meccanica del destino, che darà significato alle loro vite così come a quelle di alcuni altri personaggi che popolano questo microcosmo tra i binari.
Un impegno quello messo in questo film in termini di mezzi materiali dalla produzione e di coinvolgimento personale da parte di un Maestro indiscutibile come Martin Scorsese, davvero impossibile da non premiare almeno con la visione.
Ma la sensazione è che questa grande fatica non sia poi andata del tutto a segno. Il film è una fiaba moderna in formato colossal che, nonostante una cura mastodontica dei dettagli, lascia insoddisfatti per la morale piuttosto elementare e la scarsa empatia che desta nello spettatore.
Non si vola, non ci si stacca dalla consapevolezza di essere al cinema; forse perché l’attenzione è sempre sul cinema, sui suoi albori, sul suo divenire, sulla precarietà della gloria di chi investe in questa arte dell’incantare. E’ forse tutto un po’ troppo autoreferenziale.
La magia, quella vera, quella che nasce dal sentirsi rapiti ed inglobati dallo schermo, quella, va detto, latita. Non bastano genio, tecnologia e perfezione stilistica. Non basta avvantaggiarsi di un 3d che illuda lo spettatore di trovarsi sotto la stessa nevicata dei protagonisti, o che gli permetta di percorrere cunicoli segreti assieme a loro. Non basta un mondo costruito ad arte da un gigante dell’illusionismo come Dante Ferretti. Non basta la grande passione per il cinema di questo immenso regista a forgiare nello spettatore un coinvolgimento fatto a immagine e somiglianza del suo. Non basta nominare continuamente la magia perché se ne resti avviluppati. Anzi.
Il manierismo eccessivo di dialoghi e siparietti crea distanza. Il meccanismo di cui non riesce la messa in atto è quello dell’immedesimazione da parte del pubblico, della sua partecipazione magica e viscerale al sogno sognato dal regista.
All’uscita la sensazione è quella di avere un po' "l’aria triste di chi aspetta di funzionare",
proprio quella che viene attribuita da Hugo all’automa prima del rinvenimento della chiave a forma di cuore che ne avvia il meccanismo. Quella di cui Scorsese stavolta ha dimenticato forse di tenere una copia per sé.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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