FILOSOFIA A lume di naso

Con le facili risposte escogitate da un furbo taxista Julian Baggini allevia le nostre ansie quotidiane

Due esempi di divulgazione filosofica efficace e perfino divertente. Accostarli, si deve ammettere, sembra azzardato, impertinente. Un po’ come affrontare la questione del senso della vita interrogando i Monty Python. O esplorare i recessi dell’Io, i risvolti profondi della coscienza, le pieghe misteriose del soggetto lasciandosi guidare dalla principessa nel favoloso Paese di Oz. O, ancora, soppesare l’ovvietà e l’assurdità del legame tra le parole e le cose frugando nel sacco pieno di nomi-oggetto caricato sulle spalle di Gulliver in viaggio per le pagine di Swift.
Ma stiamo già citando gli esempi riportati nei due libri di cui, a dispetto di azzardi e impertinenze, d’infrazioni delle divisioni disciplinari o delle regole del traffico, vorremmo sostenere l’efficacia comunicativa. Sono Il tassista, il poeta e il senso della vita (Cairo Publishing, pagg. 220, euro 15), ovvero le Piccole risposte di filosofia quotidiana fornite da Julian Baggini che a Londra dirige la rivista Philosophers’ Magazine e scrive da editorialista sul Guardian e il Sunday Herald, e le «Dieci lezioni di filosofia» di Enzo Melandri (1926-1993), tenute a Correggio tra il febbraio e il giugno 1988 e raccolte nel volume Contro il simbolico (Quodlibet, pagg. 310, euro 26).
Un pubblicista e un professore. Un opinionista e un maître à penser. Ma l’accoppiata Baggini-Melandri non coincide con il binomio classico che contrappone la doxa all’aletheia, cioè l’opinione alla verità. Certo sul taxi di Baggini si prende una scorciatoia. La corsia preferenziale. La via più rapida e breve che conduce, attraverso i dubbi di Frankenstein - «Chi ero? Che cosa ero? Da dove venivo? Qual era la mia destinazione?» - e le certezze di Ozzy Osbourne - «All we need is love» -, la mossa di Neil Armstrong sulla luna - «Un piccolo passo per un uomo, un passo da gigante per l’umanità» - e la contromossa di Margaret Thatcher a Buckingham Palace - «La società non esiste. Ci sono solo individui, donne, uomini e famiglie» -, a sfiorare alcuni quesiti filosofici fondamentali. È, insomma, un tour che porta all’avvistamento - nitido, seppure messo a fuoco da finestrini aperti sulle nebbie londinesi - di temi cruciali quale l’origine dell’esistente e la sua finalità, l’interesse privato e la giustizia comune, l’amore del singolo e il bene dell’umanità...
Il (per)corso di filosofia guidato da un Melandri nella sua forma più smagliante e rivolto, si badi, a un uditorio di non specialisti, è certo più allungato. Ma non perciò tortuoso. Ha esattamente la curva eccentrica, niente affatto fuorviante, che poteva imprimergli il genio eclettico autore di un capolavoro quale La linea e il circolo (Quodlibet, 2004). Ha la mira di un pensatore che fa centro, va dritto al cuore del problema (e del suo pubblico) sparando a zero Contro il simbolico per restituire vitalità e vivacità a un lessico altrimenti mortificato dalle astrazioni del filosofese.
«Io non penso che la filosofia cresca su problemi battezzati filosofici come tali, ma sia una creazione spontanea di qualsiasi domanda si ponga in generale l’umanità», enuncia a chiare lettere nella prima lezione sulla Logica. Sviluppando tutte le successive - su Linguaggio e Realtà, Metafisica e Soggetto, Credenza e Desiderio, sull’Essere, l’Etica, la Morte - manterrà coerentemente la stessa posizione. Così ammette che tutto sommato della filosofia si può anche fare a meno. «Di fatto gli uomini potrebbero arricchirsi, diventare più sapienti, esibire una maggiore igiene mentale senza preoccuparsi dello statuto della logica». Riconosce tuttavia l’utilità pratica di certe questioni teoriche: «Non si può sottovalutare l’influsso del teorema di Pitagora sulla nostra agrimensura». Mette sotto processo i processi del capire: se non si capisce è «per l’imperizia di chi parla o l’ottusità di chi ascolta?».
Assolve le illusioni dell’infanzia, dolorosamente sfatate nell’adolescenza, riguardo all’esistenza della realtà: «Che ce ne facciamo della luce di una stella che a milioni di anni-luce di distanza manifesta la sua presenza quando è già scomparsa da un pezzo?», chiede strizzando l’occhio agli incantesimi degli scienziati. Condanna gli espedienti della retorica: «La cui riabilitazione ha avuto il massimo esponente in Adolf Hitler quando nel Mein Kampf osserva che la folla a guisa di femmina deve essere non solo convinta ma soggiogata dal tribuno». Ma giustifica il ricorso all’ipocrisia, che La Rochefoucauld definì una volta per tutte «l’omaggio che il vizio paga alla virtù». Affronta il dilemma del male: fisico, morale, metafisico, originale. E sfiora con un tocco di sublime leggerezza la vexata quaestio della traducibilità della poesia: «Croce la negava, Gentile la ammetteva», informa. Come potesse poi Croce leggere Ibsen «dato che ignorava il norvegese» resta inesplicato.
Melandri una spiegazione la tenta. «Croce non aveva capito che la traduzione di una poesia non ha bisogno d’essere poetica».

Chi ci vieta di tradurre L’infinito di Leopardi in trenta pagine di prosa cinese? «Ma Croce intendeva un’altra cosa, e su questo sono d’accordo con lui: non si può certo andare in Paradiso in carrozza». Invece, per raggiungere gli empirei della filosofia, un passaggio in taxi, o un giro di esplorazione condotto dalla più eccentrica delle guide si potrà chiederlo?

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