Il fortino dei marine nell’Afghanistan ostaggio dei talebani

"Fort Apache", a Garmshir, è l’estremo avamposto americano nel sud del Paese. Intorno solo guerriglieri. E mercanti d’oppio. A presidiare la zona 100 uomini, accampati in un nido di fango tra brande e mitragliatrici

Il fortino dei marine nell’Afghanistan 
ostaggio dei talebani

da Kabul

La base Apache South è a Garmshir, nella provincia di Helmand, Afghanistan. È un nido di fango e mitragliatrici. Un rettangolo di cento metri per centocinquanta, una muraglia di paglia, palta secca e sacchetti di sabbia disegnato attorno alle brande di due plotoni di marine. Sono cento uomini. Vivono accampati in questa desolata roccaforte afghana, bruciati dal sole, affogati nella calura, soffocati dalla polvere. La chiamano Apache South, ma è la fortezza Bastiani, l’ultima ridotta di questa provincia d’Helmand con una bandiera occidentale. Appena fuori inizia la Cow boy street. I marine la chiamano così, ma quei 140 chilometri di terra battuta fino alla frontiera pachistana sono la discesa nelle tenebre, l’hic sunt leones del XXI secolo afghano. C’infiliamo la testa alle sei del mattino. Il sole è un gelato alla fragola sciolto tra nebbie e risaie, un bagliore vermiglio oltre la muraglia, le mitragliere e i sacchetti di sabbia. Il capitano Sean Dynan, comandante della base della compagnia Alfa, ti batte sulla spalla, soppesa il tuo giubbotto anti-proiettile, ti spinge tra i leoni: «La squadra è pronta godetevi la giornata». Sono già lì, allineati, i mitragliatori tra le braccia, le schiene piegate dagli zaini, il petto curvo sui caricatori. La missione d’ogni mattina, una passeggiata armata a sud, è un tuffo nell’ignoto. Il sergente Mike Neesmith spiega: «Andiamo sulla Cow boy, facciamo copertura, fermiamo auto, camion e moto, diamo la caccia ai “cattivi”. Ricordatevi: cerchiamo armi sulle automobili, carburante sui camion». Oltre ai rifornimenti per i talebani bisogna fare attenzione a trappole esplosive, autobombe, fanatici del martirio. «Niente scrupoli, nessuno si deve avvicinare prima dei controlli, fateli scendere, controllateli uno a uno, bambini compresi. Voglio mani in alto, camicie arrotolate, maniche e calzoni rimboccati, lo voglio prima che muovano un passo. I cattivi - “the bad boys”, come chiama i talebani - vogliono tornare, dobbiamo tenerli lontani».
In un attimo il serpente è in movimento: un lento corteo di 300 metri srotolato tra la fortezza e le piantagioni. La collana si sgrana. Un marine si acquatta agli incroci, un altro sprofonda tra il fogliame e la mota dei canali, un terzo copre la retrovia. Si avanza sobbalzando, scandagliando vegetazione e canali con visori e moltiplicatori di focale. Intorno, il piccolo mondo di Garmshir è in movimento. Turbanti e barbe svolazzanti aggrappati ai manubri di motocicli, silenziosi lugubri chador, file di mocciosi in bilico sugli argini dei canali, anziani immobili all’ombra dei muretti. È un universo muto e silenzioso, occhiate senza espressione, sguardi sperduti oltre i mitragliatori, oltre le divise e gli elmetti. Due mondi all’incrocio della guerra. «Il 29 aprile, quando siamo sbarcati qui, non c’era un soldato occidentale o afghano». Il racconto del capitano Sean ti rimbomba nella testa, rimette ordine nello sfilare di soldati e mute comparse di questo mondo sospeso. «I talebani erano i padroni della zona. Gli inglesi e i canadesi combattevano più a nord, nessuno metteva piede a Garmshir da anni. Noi siamo stati i primi e ci siamo fatti posto combattendo». Prima di allora i 7mila soldati britannici arroccati tra le sabbie e i deserti di Helmand difendevano a stento le posizioni a nord della cittadina. In tutto il sud della provincia regnava il nuovo e risorto ordine talebano. Qui, nel 2006, i fondamentalisti scannarono 85 maestri e studenti e bruciarono 187 scuole. Nel 2007, tennero prigioniero il giornalista italiano Daniele Mastrogiacomo e sgozzarono i suoi collaboratori afghani.
La riconquista di Garmshir scatta ai primi di aprile quando l’allora comandante della Nato, il generale Dan McLean, decide d’utilizzare i 2.400 uomini del 24° corpo di spedizione marine per dare man forte ai britannici. All’inizio d’aprile, un’avanguardia si accampa a Fob Dweyer, una base a sud delle linee dell’Alleanza considerata allora la punta di lancia della Nato. Da lì, i marine s’allungano verso Kandahar, attirano il nemico in trappola. Il capitano Sean e gli altri uomini del 24° corpo di spedizione a quel punto, chiudono la gabbia. «Quando le colonne di talebani si sono spostate a nord per intercettare i nostri, siamo saliti sugli elicotteri e siamo volati quaggiù, a sud. La mia compagnia appoggiata da mortai e artiglieria ha ripulito il fronte meridionale, le compagnie Bravo e Charlie hanno spazzato via le posizioni a nord. Da quella notte i talebani fanno i conti con la nostra tenaglia». E la provincia di Helmand riscopre i colori americani. Era già successo 48 anni fa, quando la Morrison Knudsen, compagnia specializzata nella costruzione di dighe e canali, arrivò qui pagata da Washington per sviluppare un progetto d’irrigazione attorno al fiume Helmand. Gli americani scomparvero con l’invasione sovietica e i canali si trasformarono nell’arteria vitale per le coltivazioni d’oppio. Dove adesso avanza la pattuglia della compagnia Alfa correvano, fino a pochi mesi fa, convogli di eroina diretti in Iran e nel Baluchistan pachistano. Qui fioriva la maggior parte dell’oppio afghano, confluivano i raccolti delle piantagioni settentrionali del Badakshan. Qui, dopo aver pagato un cospicuo diritto di transito ai talebani, iniziava la «rotta della mezzaluna d’oro».
Sulla Cow Boy street, tre mesi dopo lo sbarco dei marine, i giochi sono ancora aperti. All’orizzonte sud il camioncino blu è un batuffolo di polvere. Il sergente Mike Neesmith lo osserva dal mitragliatore, alza l’occhio dal collimatore telescopico, a un suo cenno dieci armi inquadrano il bersaglio. È già in piedi, il braccio alzato e due marine incollati. Il furgone inchioda, cinque grossi barili scivolano sul pianale, s’infrangono sulla cabina: «Proprio questo cerchiamo: i talebani hanno bisogno di carburante per rifornire le unità oltre le nostre linee e spostarsi nelle zone inglesi». Due turbanti e due barbe nere scendono con le mani alzate, arrotolano i vestiti.

I fusti sono vuoti. I due rimontano in macchina salutano, se ne vanno, ma a Neesmith il sospetto rimane. Segna la targa, annota i nomi. «La guerra è forza, ma anche pazienza e noi marine - mormora – le possediamo entrambe».

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