Foscolo messo all’indice dalla contessa

Tra luglio del 1801 e febbraio-marzo del 1802, a Milano, Ugo Foscolo e Antonietta Fagnani Arese vissero un amore tempestoso, comunicando tra loro nell’unico modo allora concesso agli amanti, con lettere e biglietti recapitati fortunosamente da servitori complici. Leggere oggi le numerose lettere del poeta e le pochissime che restano della donna (Ugo Foscolo, Lacrime d’amore, Guanda, pagg. 283, euro 17,50, per l’ottima cura di Giovanni Pacchiano) è fare un viaggio a ritroso nel tempo e rivedere la Milano di allora e la sua alta società riflessi nel cuore infuocato di un giovane il cui destino era scrivere I sepolcri e Le Grazie, diventare l’ispiratore di Mazzini e il nume tutelare del Risorgimento italiano. Ma anche conoscere l’esilio, una vita di espedienti, la prigione per debiti, e una morte precoce.
Antonietta Fagnani Arese era una contessa, già maritata e madre, protagonista del bel mondo, notata in seguito da Stendhal e corteggiata dall’intera Armata di Francia. Abitava a palazzo Arese, in corso di Porta Orientale, oggi Corso Venezia. Ugo Foscolo era allora un giovane scrittore considerato una testa calda, autore di un romanzo come Le ultime lettere di Jacopo Ortis che lanciava un messaggio politico e patriottico sotto i veli di una struggente storia di sentimenti amorosi. La società milanese di quegli anni, maturata intorno a un robusto illuminismo pragmatico e investita dal soffio della Rivoluzione francese, era ricca, libera e gaudente, che concedeva alle donne di ceto elevato una libertà che oggi sorprende. Antonietta viveva dunque tra carrozze, teatri, libri, villeggiature e amanti.
Foscolo era povero, assillato dal problema del denaro come lungo tutta la sua travagliata esistenza. In una lettera poco romantica detta ad Antonietta le cifre del suo bilancio mensile: può contare su 70 scudi milanesi, di cui 10 vanno nell’alloggio, un appartamento in contrada della Spica, oggi via Spiga, 40 per il vitto e il fuoco, ne restano 20 per vestirsi e mantenere il fratello minore Giulio, allora a suo carico. Per i vizi, niente.
Ma Foscolo, giocatore e spendaccione, professa in queste lettere solo il vizio dell’amore. Vive bevendo tè a volontà, e solo qualche volta il celebre cioccolato con la «panera», la panna, nei caffè alla moda, prendendo qualche dose curativa di oppio, patendo orribilmente il freddo e la pioggia continua di quella che chiama città «di letame» o «da suicidio», e scrivendo deliri amorosi alla donna che ama. Ha solo ventitré anni ma nelle sue lettere si presenta come uno che ha già bevuto amaramente al calice della vita, preda della malinconia e di una «perpetua infelicità», pronto a disprezzare gli «uomiciattoli» con leonina fierezza. È un giovane «sventurato», cui scorre nel petto un torrente di fuoco. Dunque dà alla sua donna un’immagine di sé pienamente letteraria, sempre più vicina a quella del suo personaggio Ortis, sino a firmarsi persino Ortis in qualche lettera. Nei momenti felici, accomuna a sé Antonietta, donna colta, che sta traducendo il Werther di Goethe per lui: «sentiamo troppo, l’anima ci divora il corpo, mentre nei più dei mortali il corpo seppellisce l’anima».
Foscolo vuole rendere eterne la bellezza e la giovinezza di Antonietta, e rievoca Catullo nel ricordarle che «nessuna donna può dire di essere amata tanto». Come in tutti gli amori, i momenti felici vengono insidiati dal buio dei dubbi, della gelosia, dell’incomprensione. Ci sono in nuce in queste lettere moltissimi temi della grande poesia foscoliana, il cuore che vince sempre le sue battaglie contro la ragione, l’affetto per la madre lontana, unico scudo contro il ricorrente pensiero del suicidio, la morte tragica del fratello Giovanni, il furore di gloria, raggiungibile attraverso gli scritti per coloro cui non è dato compiere grandi azioni, la forza trasfigurante della bellezza. Ma, dietro l’estasi amorosa che riempie queste lettere di una scia lunghissima di lacrime, dietro tutte le invocazioni alla «divina creatura», alla «celeste creatura», c’è una commedia gaglioffa e incredibile, fatta di intrighi, dissimulazioni, stratagemmi, doppi sensi, che ci sorprende per la sua vitale freschezza.
Antonietta ha un marito, l’inoffensivo conte Marco Arese, cui Foscolo proclama di voler bene per la sua aria di «buona persona». Ma è anche circondata perennemente da corteggiatori. Uno è il giovane cognato Francesco, Cecco, chiamato anche il Cavalierino o il Conte di Albania, l’altro è il signor Petracchi, vile e miserabile agli occhi di Foscolo, che è sempre a un passo dallo sfidarlo a duello. L’amore con Antonietta è anche una lotta, un corpo a corpo con mille difficoltà. Compaiono fazzoletti all’inferriata di palazzo Arese come segnali di via libera, trottano messaggeri ora fidi ora infidi, capaci di trasformarsi in perfide spie, si cercano rifugi discreti e compiacenti, tra essi la casa dove aveva vissuto il Parini, in Brera. Foscolo un giorno intravede il marito e il cognato di Antonietta in piazza del Duomo.
Via libera, pensa fulmineo, e corre verso palazzo Arese. Ma si accorge appena in tempo che il cognato, il Cavalierino, ha cambiato idea e sta tornando a casa anche lui. «L’abbiamo scappata bella», scrive dopo ad Antonietta, con il linguaggio di un malandrino qualunque. E poi, per fissare gli incontri, c’è il problema di evitare la presenza di quello che Foscolo chiama con una metafora scherzosa e non esente da volgarità «il signore Titolato». Che non è il marito o qualche illustre corteggiatore, ma quello che in gergo veniva detto il «marchese», le mestruazioni di Antonietta stessa.
Quando lei deve seguire il marito, a Varese, a Torino, Foscolo resta a Milano in preda a furori di ogni tipo. E scrive a lei delle disavventure del suo «fratellino», così chiama in codice il suo sesso, che si tormenta, non è mai contento, è esigente, che gli parla persino, gli ricorda che «Vive più chi più sente», e vince contro ogni sobria filosofia arrivando una notte a «lacrimare» ben quattro volte. Poi corre per una buona parte delle lettere il tema tragicomico di una malattia venerea, che uno dei due amanti ha trasmesso all’altro. Foscolo, con galanteria, sembra volersene assumere l’unica responsabilità.
Quando l’amore finisce, lui spera che rimanga l’amicizia, la «corrispondenza» d’affetti. Ma, da quel poco che resta delle sue lettere, Antonietta non sembra donna su cui far conto per sentimenti troppo delicati. Ha chiamato il povero Ugo «romanzetto ambulante», e come tale sembra pronta ad archiviarlo tra i libri già letti. È qui che Foscolo ha un soprassalto d’orgoglio. Ha davvero patito tanto e si è tanto incanaglito per quella donna, ma oramai il gioco è chiuso. E, di fronte a recriminazioni e calunnie, le scrive che non farà pazzie né per l’amore né per lei, ma che è disposto a farne per difendere l’onore e se stesso.


Ritorna il poeta alto e drammatico che ci hanno tramandato, che trasfigura tutto, malattie veneree, signori Titolati, fratellini inquieti, in quell’ode insospettabile, All’amica risanata: «e in te beltà rivive/ l’aurea beltate ond’ebbero/ ristoro unico a’ mali/ le nate a vaneggiar menti mortali».

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