Che significa che il ministro degli Esteri della Repubblica, Massimo D’Alema, prima dichiara che «l’uso della forza e la guerra rafforzano l’estremismo e danno nuova forza al terrorismo», e poi si fa fotografare nei quartieri sciiti di Beirut tra due ministri hezbollah? Tali atteggiamenti vanno al di là dell’occasione specifica per assumere un valore ben più generale.
L’esponente diessino persegue una strategia i cui obiettivi sono impliciti nella mancanza di condanna degli hezbollah e nella altrettanto insistente critica allo Stato di Israele per avere reagito in maniera «sproporzionata» all’attacco terrorista. D’Alema si propone come leader unificatore di tutta la sinistra italiana, dai riformisti timidamente presenti all’interno dei Democratici di sinistra, alle frange estreme rappresentate non solo dai fratelli separati bertinottiani e dilibertiani, ma anche dai no-global, dai disobbedienti e altri variegati gruppi dallo spiccato spirito anti-americano ed anti-israeliano.
Per perseguire quest’obiettivo che ha poco a che fare con la politica estera italiana, D’Alema deve esprimere in maniera comprensiva tutte le pulsioni anti-occidentali e pseudopacifiste fino a sollecitare gli stessi spiriti anti-sionisti di cui il popolo di sinistra si è nutrito negli anni. Infatti, se una parte responsabile della sinistra sembra allinearsi al riformismo europeo che contempla la difesa dello Stato di Israele, nel popolo della sinistra si sono sviluppati i germi di ciò che la vulgata chiama anti-capitalismo, anti-imperialismo e anti-sionismo contro quella che è considerata la punta avanzata dell’Occidente nel cuore del Medio Oriente.
Massimo D’Alema è sufficientemente avvertito per sapere che il sentimento anti-sionista ed anti-yankee diffuso a sinistra è un cascame ideologico. Ma è anche abbastanza cinico per calcolare che se vuole porsi come leader della sinistra non può che percorrere una strada pavimentata dalla demagogia terzomondista e dalla retorica populista estesa a scala internazionale.
Del resto l’aspirazione liberistica dalemiana si incontra con le profonde correnti nazionalistiche, neutralistiche e pacifiste saldamente insediate non solo nel nostro Paese, ma anche in Europa, in Francia, Germania e Spagna. Perciò l’ambizioso ministro degli Esteri si propone come mediatore a scala europea nei confronti del mondo islamico ed arabo, incluse le propaggini terroristiche collegate con Teheran e Damasco.
Se la nostra ipotesi risponde alla realtà - un D’Alema che usa la posizione di responsabile della politica estera italiana per unificare la grande sinistra italiana - non è superfluo domandarsi se il governo di centrosinistra, specialmente nelle componenti più filo-occidentali, sia consapevole ed accetti questa linea strategica dalemiana. La risposta non spetta a noi: perciò la giriamo al presidente del Consiglio Prodi e a tutti coloro che non condividono l’anti-americanismo e l’anti-israelismo impliciti negli atti del nostro ministro degli Esteri.
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