In fuga dai climi estremi. Foto ai confini del mondo

Il milanese Grassani racconta in 40 scatti le storie di migranti in 4 Paesi: "Per tutti la città è un'illusione"

In fuga dai climi estremi. Foto ai confini del mondo
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Dalla Mongolia al Kenya, dal Bangladesh ad Haiti. Freddo estremo, caldo estremo e soprattutto uomini e donne in fuga disperata da una vita che era agiata, con centinaia di capre o terre da coltivare come patrimonio ricco per Paesi che ricchi non sono, verso la megalopoli che diventa per quasi tutti una vita in baraccopoli. Alessandro Grassani, classe 1977, è un fotografo affermato, collabora con il «Times» e il «New York Times», ha esposto in città tra le più importanti del mondo e adesso è felice di vedere quaranta delle sue immagini esposte da oggi e fino al 27 aprile al Museo diocesano Carlo Maria Martini, per la mostra «Emergenza climatica. Un viaggio ai confini del mondo», con la curatela di Denis Curti, fortemente voluta dalla direttrice del museo, Nadia Righi, e sostenuta dalla Fondazione Grana Padano. «Finalmente anche mia nonna potrà venire a vedere le mie foto esposte a Milano» scherza Grassani, nel giorno in cui non si può più dire di lui che nessuno è profeta in patria.

Quattro Paesi, quattro viaggi in autonomia con un fuoristrada e un interprete, un lavoro durato dieci anni: «In Kenya mi è capitato di essere l'unico con una macchina, ho portato un pastore combattente di vent'anni, ferito, nel suo villaggio». Pastori combattenti che si contendono una pozza d'acqua per le loro bestie, usando le armi al posto del bastone. Le foto raccontano anche queste storie, una donna che è lo scheletro di se stessa dopo quaranta giorni senza pioggia, una croce su ventotto corpi di uomini uccisi in una vendetta armata dalla siccità che sembra un film di Tarantino e invece è «la tensione della realtà», come la definisce il curatore Denis Curti. Non siamo nell'«immaginifico» di fotografi come Salgado o LaChapelle, ma sono «storie concrete che possiamo toccare con mano».

Grassani racconta ciò che ha visto e immortalato nei suoi scatti: «Non sono migranti che arrivano da noi, si spostano di villaggio in villaggio cercando un clima migliore. Ciò che più mi ha colpito è che sperano di vivere meglio in città, ma nella realtà, costretti ad emigrare vedono peggiorare la propria condizione fino all'estremo. Si rivela un miraggio». Ancora: «Il mio obiettivo è dare un volto umano ai cambiamenti climatici. So che ci sono migranti ambientali anche a Los Angeles». Domani chissà.

In Mongolia una donna trascina nel gelo la pecora morta. Lo dzudz, l'inverno estremo, un tempo capitava ogni dieci anni, adesso ogni due e non è più possibile resistergli. Tutti si spostano verso la capitale, a ingrandire una baraccopoli. Erdene Dyun ha 26 anni e vive in un sottoscala: «Siamo una famiglia di pastori, da sempre. Quando lo dzuz ci ha portato via le nostre 150 pecore, a noi non è rimasto più nulla. Per pagare il viaggio abbiamo dovuto vendere anche la tenda che è sempre stata la nostra casa. Mia madre è l'unica che lavora.

Mia mamma fa la portinaia e la donna delle pulizie in questo condominio; la guardiola di pochi metri quadrati nel sottoscala ci viene data in affitto come parte del suo stipendio, e quello che rimane è appena sufficiente per nutrirci» racconta anche dal Qrcode che si trova sotto molte delle immagini.

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