«La verità ti renderà libero. Ma solo quando avrà finito con te».
Non serve stare qui a dire perché uno si ammazza. L’ultima immagine di David Foster Wallace è un corpo senza vita che dondola, appeso a una corda. E anche questa, se volete, è una citazione letteraria. È una carta dei tarocchi e la poesia di Villon. È l’impiccato. Le agenzie dicono che a trovarlo sia stata la moglie. Era lì, nella sua casa di Clermont, nel sud della California. I frammenti di notizia parlano di un male cattivo allo stomaco, ma sono solo parole sussurrate, con tutta l’angoscia per l’addio di un uomo di 46 anni, che molti in America e altrove consideravano un genio, uno che come un cane randagio, con gli occhiali da nerd, un buon rovescio incrociato e la bandana in testa, scavava tra le macerie della cultura occidentale, tra i palazzi abbandonati del Novecento, dopo la fine delle ideologie, il tramonto delle fedi, i nuovi paradisi, i frammenti di utopie, nei rivoli del passato che non sono ancora diventati futuro e stagnano, in quella melma dove ogni tanto si scorge qualche nuova forma di vita, un abbozzo di avvenire. David Foster Wallace era un flâneur del pensiero e il suo sguardo si posava dove qualcosa veniva lì a tentarlo, incuriosirlo. Non importa dove, non importa quando.
«Il talento è solo uno strumento. È come avere una penna che scrive invece di una che non scrive». La sua forza era in fondo tutta qui: spiegarti Wittgenstein o la meccanica quantistica partendo da un dritto di Agassi. E viceversa. «Il mio modus operandi - raccontava - è cominciare a lavorare su un sacco di cose diverse allo stesso tempo, e a un certo punto o prendono vita (ai miei occhi) oppure no. Una buona metà di loro non prende vita, e a me manca la disciplina o la forza di lavorare a lungo su qualcosa che mi sembra morto, per cui lo abbandono o lo metto via o rubo dei pezzi per altre cose. È tutto molto caotico, o almeno a me sembra così. Ciò che la gente alla fine legge di me è il prodotto di una specie di lotta darwiniana nella quale solo che per me sono vive vale la pena di finirle, sistemarle, editarle, copyeditarle».
È facile stare qui a parlare del Foster Wallace enciclopedico, postmoderno, delle sue storie che vagano in una sorta di «realismo quantico», in cui la realtà sembra viaggiare su una linea parallela del tempo, molto simile alla nostra tranne in qualche variante sporadica e casuale. È quello che accade nel suo capolavoro. Ma il segreto di Infinite Jest (Fandango 2000, poi Einaudi 2006) è appunto nel titolo, nella citazione di Amleto, quella con il teschio di Yorick, il buffone di corte: «Questo uomo io l’ho conosciuto, fu un giovanotto di infinita facezia». Infinite Jest, appunto.
E se il romanzo parla di un film perduto, che strega i suoi spettatori fino a renderli catatonici, fino all’infinito, la colonna sonora è l’infinita tristezza di un’America che non si riconosce più. È il trauma di chi ha visto cadere tutte le illusioni che il secolo breve aveva creato e si ritrova a vivere la progressiva smaterializzazione del mondo. David, ragazzo del Midwest, viveva lo stesso dramma di Kurt Cobain, il portavoce di questa generazione troppo giovane per il Novecento e troppo vecchia per il futuro. Il cantore grunge che sosteneva: «Eccoci qua, intrattienici. Mi sento stupido e contagioso». È la generazione che ha affogato la vita nell’orizzonte dell’intrattenimento, l’unico modo per sopravvivere al naufragio di un’era, che costringe i suoi figli a navigare a vista, senza bussola e sestante. L’unica certezza è il dubbio e la vanità della vita. E proprio come Amleto non ti resta che sussurrare al teschio la tua disperazione: «Dove sono ora i tuoi sberleffi, le burle, le capriole, le canzoni, i folgoranti sprazzi di allegria che facevano scoppiare dalle risa le tavolate? E ora? Quale orrore. A guardarlo mi si rivolta lo stomaco».
David Foster Wallace è soprattutto un cronista «particolare», quel tipo di narratore che comincia a raccontarti una storia, poi vaga, apre finestre, e quando pensi già di esserti perso ti riporta a terra, tocchi con mano quella che sta accadendo. Le citazioni non sono mai inutili, gli intrecci culturali tra il pop e i classici sono l’ultima possibilità che abbiamo per non perderci nel mondo. Basta leggere le storie di Considera l’aragosta, con il racconto dell’11 settembre visto con gli occhi televisivi di una casalinga disperata. E provate a immaginare «che l’apocalisse abbia preso le sembianze di un cocktail party».
Sfogliate, dal catalogo di minimum fax, Verso Occidente l’impero dirige il suo corso o i reportage di Tennis, Tv, trigonometria, tornado (e altre cose divertenti che non farò mai più), con i «dietro le quinte» degli Australian Open o del set di Strade perdute di Lynch o, ancora, le fotografie inedite della vita di provincia americana in un Midwest animato da bizzarrie meteorologiche e chiassose fiere campionarie.È questo il viaggio di un uomo che è nato a Ithaca e non è mai tornato a casa.
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