La Germania cattolica in crisi ora rinnega il «suo» Pontefice

«Wir sind Papst», «siamo diventati Papa»: nel titolo di apertura della Bild Zeitung, infallibile termometro dell’opinione pubblica tedesca, c’era l’orgoglio di tutta la Germania. Il giorno dopo l’elezione di Joseph Ratzinger un intero popolo festeggiava. Per naturale fierezza nazionale e qualche cosa in più. Il Pontefice venuto dalla Baviera pareva lavare per sempre il latente senso di colpa dell’anima tedesca uscita dal nazismo e dal dopoguerra.
Dall’aprile 2005 sono passati cinque anni, ma sembra un secolo. E il rapporto tra Benedetto XVI e il suo Paese di origine vive momenti difficili. «Da ora non vogliamo più essere Papa», ha titolato qualche tempo fa la Süddeutsche Zeitung, il quotidiano pubblicato nella (un tempo) cattolicissima Monaco. Gli ultimi sondaggi sono nerissimi. Secondo il settimanale Stern a fine marzo solo il 17% dei tedeschi aveva fiducia nella Chiesa, il 24% nel Papa. Un crollo rispetto alla fine di gennaio, quando i dati erano il 29% e il 38%. Il peggio è che a essere logorato è il rapporto con gli stessi fedeli cattolici, circa 25 milioni in tutto il paese. Un quarto tra loro sta pensando di uscire dalla comunità ecclesiale. Un dramma. E anche l’annuncio di una catastrofe economica: in Germania chi aderisce alla Chiesa lo dichiara con un atto ufficiale e le versa l’8 per mille. In ogni momento può, però, andare in tribunale, ritirare l’adesione e risparmiare i soldi versati (che non finiscono allo Stato ma restano nel portafoglio del contribuente). Ogni anno i fedeli diminuiscono di qualche decina di migliaia di persone, ma ora il piccolo rivolo di abbandoni potrebbe diventare un fiume.
Il polverone sulla pedofilia è stato un colpo durissimo. Ma forse è stata solo la goccia che ha fatto traboccare il vaso. In un Paese ormai largamente secolarizzato e basato sulla religione civile della «Repubblica federale come antitesi organizzata statualmente alla dittatura nazista» (parola della stessa Süddeutsche) già il caso Williamson, il vescovo lefebvriano che aveva concesso una serie di interviste negazioniste mentre Benedetto XVI avviava l’apertura alla comunità tradizionalista, aveva segnato una discontinuità profonda. Proprio in quell’occasione avvenne l’incredibile, almeno dai tempi della guerra di Otto von Bismarck contro la Chiesa di Roma, 140 anni fa: il cancelliere Angela Merkel, usò parole quasi ultimative contro il suo connazionale Ratzinger. «Sull’antisemitismo vogliamo da lui parole chiare e senza equivoci». Una richiesta nei toni incomprensibile se non si tiene presente i valori su cui è fondata l’attuale identità tedesca (per cui ogni tentennamento, anche apparente, su temi come l’antisemitismo è un tabù) e la stessa storia della Merkel: figlia di un pastore protestante, cresciuta nell’ex Ddr, ha rotto quel legame tra politica e Chiesa che il cattolico Kohl aveva coltivato negli anni del suo cancellierato. Tanto da avere qualche problema con uno dei partner di governo, la Csu, la democrazia cristiana bavarese.
Oltre che con una politica post-cattolica, con una comunità ecclesiale orientata verso temi ecumenici e in termini generali molto «progressisti», Ratzinger deve fare anche i conti con un sistema dei media saldamente arroccato nell’arci-protestante e oggi laica (in italia molti direbbero «laicista») Amburgo. Settimanali come Der Spiegel e Die Zeit non hanno mai nascosto il loro atteggiamento severo nei confronti di Roma.

Der Spiegel, qualche settimana fa, mentre già infuriavano le polemiche sulla pedofilia, ha celebrato, con un articolo quasi devoto, Margot Kässmann, la prima papessa donna delle chiese protestanti: dopo una cena in un ristorante, mentre era al volante della sua vettura, la Kässmann ha mancato un semaforo rosso e la polizia le ha trovato un tasso alcolico nel sangue superiore al consentito. Il giorno dopo la «pastora» ha dato le dimissioni da ogni incarico nella comunità evangelica. Da prendere a esempio, è sembrato implicitamente dire Der Spiegel.

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