GIAN FERRARI Al Fai 44 pezzi da collezione

La nota gallerista milanese ha voluto donare al Fondo per l’ambiente le opere dei grandi maestri del Novecento italiano

Elena Pontiggia

Dai primi di ottobre a tutto gennaio 2007 si potranno ammirare a Villa Panza, a Biumo (Varese), una cinquantina di opere dei grandi maestri italiani contemporanei, come De Chirico, Carrà, Morandi, De Pisis, Severini, Campigli, Casorati, Martini, Gino Rossi, Sironi e altri ancora. Appartengono alla collezione di Claudia Gian Ferrari, la nota gallerista milanese, che li ha destinati al Fai, il Fondo per l'Ambiente. La incontriamo nella nuova sede della sua galleria, in via Corridoni 41. Bionda, occhi azzurri, una bellezza che non rivela affatto l'età che si intuisce dal suo curriculum, Claudia lavora da oltre trentacinque anni nel «doloroso mondo dell'arte», come lo chiamava il critico Edoardo Persico.
Come è nata l'idea di questa donazione?
«L'idea si è concretizzata nel 2003, anche se ci pensavo da tempo. Ho scelto di destinare la mia collezione alla villa Necchi Campiglio di via Mozart, a Milano, che il Fai sta restaurando. Anche perché il Cimac, il futuro museo all'Arengario, non è ancora pronto, e poi non mi ha mai convinto il progetto di allestimento di Rota, che altera parte del palazzo, opera di un grande architetto come Muzio».
E la tua collezione come è nata?
«Il primo nucleo risale a mio padre, Ettore Gian Ferrari, gallerista e, soprattutto, amico degli artisti. Si deve a lui, tra l'altro, la riscoperta di Gino Rossi, che allora era dimenticato, oltre che di tanti maestri del Novecento».
Che cosa ha contato tuo padre nella tua formazione?
«Moltissimo. Intanto mi ha trasmesso l'amore per l'arte degli anni Venti e Trenta, che lui ha difeso controcorrente, nel dopoguerra, quando era disprezzata da tutti. Poi mi ha insegnato la correttezza. Ho imparato da lui quelle cose che non si imparano all'università, e nemmeno sui libri. Messina, che non era facile agli elogi, ha scritto che è sempre stato dalla parte degli artisti. Non c'è elogio migliore».
Ma tu come hai cominciato a occuparti d'arte?
«Io volevo diventare una storica dell'arte. Ho studiato alla Statale con la Brizio e Rosci, poi ho iniziato a lavorare alla Rizzoli e nel 1972 ho pubblicato un libro sul Metropolitan Museum di New York».
E, a parte il lavoro?
«Be’, nel dicembre 1970, un mese dopo la laurea, mi ero sposata. Ma poi mio padre mi ha chiamato a collaborare con lui».
Com'è successo?
«Nel 1974 aveva avuto un infarto. Così ha radunato noi tre figlie e ci ha chiesto di dargli una mano. Le mie sorelle avevano già dei figli, io ero più libera. Nel frattempo dalla Rizzoli se ne erano andati Lecaldano e Camesasca, con cui collaboravo e molto stava cambiando. Insomma, ho accettato».
Dunque sei entrata nella storica Galleria Gian Ferrari?
«Sì, e ho subito realizzato qualche mostra, ma comunque ero l'ombra di papà, anche se a parole mi dava spazio. Poi, nel dicembre 1982, l'ultimo dell'anno, mio padre si è sentito male mentre guidava ed è precipitato nel lago Moro, sopra Iseo. Da quel momento ho dovuto fare tutto da sola».
Hai incontrato delle difficoltà, come donna?
«Be’, sì.

Come donna devi sempre dimostrare di saperci fare, e lavorare il doppio del normale. Tra l'altro non avevo nemmeno molto denaro, perché avevo dovuto dividere il magazzino della galleria con le mie sorelle. Ma per chi ha la passione dell'arte, la fatica non conta».

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