GIBBON La ballata dello scozzese volante

Dai monoliti degli antichi druidi alla prima guerra mondiale guidati da una fanciulla

A volo di grifone, nel giro delle prime venti pagine si plana giù dall’epoca in cui sulla Scozia roteavano uccellacci dalle zampe rostrate, e «altre bestie simili ancora girovagavano per le campagne» - l’epoca di Guglielmo il Conquistatore e di William «il Lione» -, e si scende fino ai tempi in cui, trafitto da un pezzo il rapace «con una lancia da cinghiale», domata a fatica la terra «sgarbata» delle campagne per cavarne dei campi, si iniziava a temere, più di conquistatori, predatori e predoni, la tanto sudata civiltà. Si piomba in picchiata, dall’alto di un medioevo più favoloso e leggendario che storico, sul XX secolo segnato già nel primo ventennio dalla storia di un conflitto mondiale. La guerra è appena finita quando Lewis Grassic Gibbon (1901-1935), compiuto à vol d’oiseau il suo tour spettacolare sul passato della Scozia, concluso il Preludio al suo «libro scozzese» - concitato abbastanza da farci risuonare i motivi della Riforma, i rimbombi della Rivoluzione francese, gli echi del socialismo e le dicerie sul bandito Wallace ammazzato dagli inglesi -, punta dritto sulle colline di Kinraddie, a sud di Aberdeen, e ci atterra nel 1919 in cui si intona il suo Canto del tramonto (Giano pagg. 350, euro 18).
Aveva appena trent’anni lo scrittore nativo dell’Aberdeenshire, cresciuto nelle campagne dei Mearns, quando cominciava a comporre, sulle note di Sunset song (uscito nel 1932), il suo pezzo da maestro. Che fosse anche l’inizio del suo tramonto non poteva sapere, lui che solo tre anni dopo avrebbe smorzato ogni musica, messo a tacere per sempre da una peritonite. Fulmineo però, come il grifone che apre la possente occhiata sulla sua terra nell’ouverture del Canto, fece in tempo a prolungarne gli sviluppi in altri due romanzi. E a ultimare l’imponente trilogia che merita bene il titolo di A Scots Quair, «Un libro scozzese», in rima col medievale Kingis Quair, «Libro del re» di Giacomo I di Scozia, e che della Scozia rappresenta l’epopea, l’epica e l’emblema novecentesco. Come l’Ulisse di Joyce per l’Irlanda. Come il Freddy Nettuno di Les Murray per il bush australiano. E se la lingua prescelta dall’autore è lo scots, coloritissimo impasto sonoro tra le pure melodie dell’inglese e le sue rustiche variazioni nel dialetto del Nord, se i suoi personaggi sono gli eroi contadini di una terra che letteralmente - e letterariamente - trova voce nelle loro parlate, ciò deve indurre a prendere il suo testo come un’opera locale, regionale o vernacolare tanto quanto si può prendere l’Ulisse per un documento di folklore irlandese o il poema di Murray per un almanacco di bifolchi e «beoti» d’Australia.
Non fosse chiaro, siamo di fronte a un monumento, un opus magnum, un capolavoro. E il ritardo - di oltre 70 anni - con cui in Italia arriva solo oggi (ma nel resto d’Europa è arrivato solo ieri) ha come unica plausibile giustificazione la difficile esportabilità di una narrazione leggibile, sì, con la delizia di una fiaba, avvincente come il diario di un’avventura, divertente come lo humour degli uomini che ci vivono dentro, struggente come tutti i tramonti, ma quasi intraducibile.
L’ha tradotta invece Massimiliano Morini, riproducendo splendidamente l’intonazione lirica del Canto e gli accenti vispi delle battute e dei dialoghi di cui si compone. È una polifonia suadente, che ammalia come una lunghissima ballata ritmata dalle note su «i bocia e le fiole» (per figli e figliole), «ciacare e m’arcord» (ricordi e chiacchierone), «manighi e pantoni» (per maniche e calzoni): espressioni riprese da tutti i dialetti italiani - non uno: sta qui la genialità -, a far da contrappunto alla voce di fondo.
L’effetto è irresistibile. E solletica immediatamente l’orecchio del lettore la calorosa familiarità, la viva prossimità della gente di una Scozia lontana, più che nella geografia, nelle lettere: finora sconosciute, ignorate, trascurate come variante periferica della prosa d’Inghilterra. Irresistibile è però soprattutto colei che, al centro del romanzo di Gibbon, nel cuore della remota comunità rurale, tra quella gente e nell’opera si muove come un cruciale ago magnetico. Su Chris Guthrie converge tutto il Libro scozzese. Intorno a lei gravita un intero universo: senza che debba fare altro che starsene distesa - come se ne sta la prima volta che la incontriamo - nella brughiera di giugno, tra l’oro delle ginestre e la porpora dell’erica, «sullo sfondo il blu cobalto del cielo e il luccichio del mare del Nord». Si sdraia lassù, tra i punti cardinali del suo paesaggio, nei momenti di crisi, gioia o malinconia: tra la canonica e il cimitero con le vecchie lapidi incise nel gotico della Riforma - «le scritte strane con le effe al posto delle esse» -, tra le rovine dell’antica torre cattolica - l’emblema del grifone ancora sullo stemma - e i Monoliti dei Druidi che al tramonto «puntavano verso est lunghe sagome d’ombra, come duemila anni prima».
Abbraccia così una storia lunghissima, la piccola Chris. Non è che una ragazza, e non vivrà più che la vita breve del suo autore, prescelta come sua controfigura femminile per assistere alla Depressione del dopoguerra, all’intristire delle campagne travolte dall’industrializzazione, all’espandersi delle metropoli. È la parabola del tramonto, disegnata su un arco vastissimo. Se la ragazza arriva a percorrerlo fino in fondo è perché «di Chris ce n’erano due, che combattevano per conquistarle il cuore e la tormentavano». C’era la Chris studiosa diligente e dotata, che imparava parole inglesi, «sottili, pulite»: tanto più giuste e precise delle ruvide parlate di famiglia. E c’era quella che, la sera, guardando le facce dei familiari alla luce del fuoco, «voleva le parole che avevano conosciuto e usato loro, dimenticate nella gioventù remota delle loro vite, parole scozzesi, per dire al suo cuore come lo strizzavano e tenevano prigioniero».
Doppio era anche lo scrittore che specchiandosi in lei nella propria sera precoce, firmava con il nome da nubile della madre il suo canto per la Scozia al tramonto. Al secolo e per l’anagrafe si chiamava James Leslie Mitchell, infatti, il giovane giornalista di talento che seppe impiegare professionalmente l’inglese più lindo e corretto nei pochi anni in cui esercitò il mestiere di critico. Ma la sua voce d’autore scozzese era un’altra: parlava una madrelingua diversa e una diversa identità presentava con la firma materna di Gibbon. Non era un travestimento: era il solo trucco che poteva escogitare per costruire come un mirabile gioco di specchi il suo capolavoro.

Solo così potevano conviverci dentro, rimbalzando l’uno sull’altro, l’inglese e lo scots, lo scrittore e il suo alter ego: composti nelle ardite armonie musicali, nelle spericolate commistioni linguistiche che descrivono, alla luce lacerante del tramonto, l’immagine unica e indimenticabile di Chris Guthrie.

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