Girone, l'India cede Il marò «ostaggio» torna per il 2 giugno

New Delhi si piega alla decisione del Tribunale internazionale La gioia della moglie: «Finalmente insieme con i nostri figli»

Andrea Acquarone

Quattro anni e tre governi (rossi) dopo, Salvatore Girone tornerà in Italia. Quasi da uomo libero. E si spera, stavolta, definitivamente.

Piano piano, tra estenuanti trattative, bracci di ferro, provocazioni e nemmeno troppo mascherate ritorsioni, gli indiani sono costretti a cedere l'ultima «pedina». Non è lo scacco matto di questa logorante partita, ma almeno il nostro tricolore può tornare a sventolare. Il 2 giugno, come cinguettato ieri di buon'ora da un trionfalistico premier Matteo Renzi, l'ostaggio di New Delhi dal 17 febbraio 2012, sarà in Patria. Esulta il Parlamento romano- seppure con tutti gli inevitabili distinguo; si arroventa, di contrappasso, il clima nel paese dell'iraconda e multibraccia dea Kali. Non tutti avrebbero voluto assecondare il Tribunale internazionale dell'Aja che a inizio mese aveva sentenziato che Girone potesse rientrare in Italia, almeno fino alla conclusione della procedura arbitrale internazionale. Ciò avverrà nel 2018, a questo punto si saprà a chi spetti il giudizio. Sia per lui che per il collega e compagno di sventura Massimiliano Latorre, già rientrato da un anno e mezzo - per gentile concessione indiana - causa ischemia. Nel frattempo il fuciliere del battaglione San Marco potrà stare con moglie e figli a casa, nella sua Puglia.

«Evviva, non vedo l'ora di tornare», aveva esultato una ventina di giorni fa appena appresa la decisione dei giudici internazionali. Pur sapendo che non era finita. Bisognava attendere il sì di New Delhi il che, considerando l'ostruzionismo mostrato finora, non poteva darsi per scontato.

L'attesa del soldato si è fatta spasmodica all'alba di ieri. La moglie Vania gli aveva telefonato alle 7.30 (le 4 del mattino da noi) domandogli «ci sono novità?». Ovviamente no. Non ancora. Era presto, l'udienza si sarebbe tenuta alle 10.30. Eppure, stavolta, forse la prima, Salvatore, fiutava un vento nuovo. Così, come a voler esorcizzare l'ansia, ha cominciato a rovistare negli armadi del suo appartamento all'interno dell'ambasciata. Cominciando a scegliere le prime cose da mettere in valigia. Adesso può farla e chiuderla. E partire insieme col Sergente Argo», il Golden Retriever che si era comprato per riempire la solitudine. L'odissea è finita. Anche le ultime, pletoriche, richieste degli indiani saranno esaudite. Sette condizioni, stabilite dalla corte Suprema, per lasciarlo partire. Tra queste la garanzia dell'ambasciatore italiano perché si impegni a far sì che, qualora il Tribunale arbitrale internazionale decidesse a favore della giurisdizione indiana, Girone torni in India entro un mese. Al soldato, che dovrà consegnare il passaporto al suo arrivo in Italia, vengono posti altri obblighi: 1) presentarsi a un posto di polizia italiano ogni primo mercoledì del mese con tanto di informativa delle nostre autorità all'ambasciata indiana a Roma; 2) non manomettere alcuna prova o influenzare alcun testimone del caso; 3) dare la propria garanzia personale di rimanere sotto la giurisdizione della Corte Suprema. Qualora uno dei «comandamenti» venisse violato gli verrebbe revocata la libertà provvisoria.

Un mini diktat tutto sommato più formale che sostanziale, una sorta di «contentino» con cui salvarsi dall'opposizione interna. Aveva tuonato fin da subito, opponendosi al rilascio, il governatore dello stato meridionale del Kerala, Oommen Chandy, noto per la sua intransigenza. Così come ha fatto ieri il primo ministro dello setsso Stato, Pinarayi Vijayan, che ha accusato il governo di «aver dato una risposta sbagliata» e di «aver fatto il gioco sporco».

Da noi, invece, Girone suo malgrado è già diventato un trofeo. Da esibire e sfruttare in vista del voto. Adesso tocca alla moglie proteggerlo: «Sono felicissima. Finalmente saremo insieme con i nostri due figli. Ma chiedo tranquillità», le sue prime parole. Inequivocabili.

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