LA GIUSTIZIA CHE SA DI POLITICA

L’iniziativa della magistratura di Parma d'interdire per due mesi dagli «incarichi direttivi dei soggetti giuridici e delle imprese» Cesare Geronzi, ha più di un aspetto anomalo: non è presa durante le indagini, quando provvedimenti restrittivi possono avere una loro logica, non è assunta sulla base di una sentenza. Ma così va la giustizia italiana (e ciò è innanzi tutto determinato da una questione strutturale: l'assetto corporativo, che vede insieme carriere di giudici e pm) e finisce per avere, anche quando è applicata dai magistrati più rigorosi, un vago sapore politico (politico-bancario, in questo caso).
Però non è questo l'aspetto più interessante della vicenda. È evidente come il caso Parmalat (ben più delle opa dei vari Gianpiero Fiorani e Giovanni Consorte protagoniste del 2005) sia stato un caso sistemico, che implicava la responsabilità non tanto penale quanto strutturale del gotha del nostro sistema bancario. Era evidente come fosse necessario tra dicembre del 2003 e primavera del 2004 risolvere appunto le questioni sistemiche piuttosto che le singole vicende, di cui poteva occuparsi la magistratura. E tra queste il problema dei problemi era quello dei poteri di Bankitalia. Allora gran parte del piccolo establishment (con alla testa Luca Cordero di Montezemolo sulla soglia di diventare presidente di Confindustria) e della sua stampa corse in soccorso di Antonio Fazio: e a trovarsi allontanato dal suo ministero fu chi voleva affrontare la situazione grave che si era creata, cioè Giulio Tremonti.
Molte delle vicende del 2005 nascono da quel mancato appuntamento. Sistemato allora il caso Fazio non ci sarebbero stati i casi Fiorani, Gnutti e così via. Ma in Italia le cose vanno così: sono le manette non la politica a risolvere i problemi.
Naturalmente questo metodo non funziona, perché imboccata la via, non si sa più dove ci si fermerà: ogni lotta di potere troverà il suo tribunale a sostenerla. E comunque la costruzione di un equilibrio fondato sulla concorrenza e non sulla consociazione del potere bancario (cioè su quello che è stato ben definito bancocentrismo) diverrà impossibile.
Due persone di grande qualità come il ritornato ministro dell'Economia Tremonti e il nuovo governatore di Bankitalia Mario Draghi, proprio in questi giorni, si sono, nel rispetto dei propri autonomi ruoli, proposti di aiutare a definire un quadro in cui le nostre banche possano ancora crescere di dimensione, diventando più competitive in Europa. Hanno anche avvertito che l'apertura dei mercati è un grande valore, ma richiede reciprocità di comportamenti innanzi tutto da parte dei Paesi dell'Unione Europea, della Francia in particolare. Dopo l'orgia di retorica strumentale di tanta stampa «indipendente» a difesa dei piccoli establishment che ne controllano la proprietà, la discussione pubblica torna su canali convincenti. L'Italia è un grande Paese, ricco di risorse, come paradossalmente le stesse proposte strampalate di Romano Prodi dimostrano. Chi come il Corriere della Sera ci paragona al Benin o al Guatemala, lo fa solo perché preso da una crescente ansia di danneggiare la coalizione in ripresa del centrodestra: ma le esagerazioni non convincono gli elettori.

Certo, sono tante le questioni a cui mettere mano: tra queste, fondamentale è favorire, pur senza dirigismi, un assetto più solido del sistema bancario, magari meno pervasivo in campo editoriale.
Per questo obiettivo servono le iniziative alla Tremonti e alla Draghi. La giustizia segua il suo corso. Sapendo, però, che la buona politica non può affidare i propri obiettivi alle manette.

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