GRÜNBEIN «La poesia nasce dalla scienza»

Viene da Dresda, ha 44 anni, è l’ultimo vate della nuova Germania. Darwiniano e materialista radicale, ha scritto un monumentale poema in versi dedicato a Cartesio. Qui spiega perché...

È il primo poeta della Germania riunificata e viene dall’Est. È sfuggito al regime della Ddr: diviso tra il desiderio d’Occidente e il rimpianto della sua Dresda, ormai “Relitto barocco” e “Chimera” del passato. Si è trasferito a Berlino prima della caduta del Muro e ha assistito agli eventi che hanno portato alla svolta, ma nella sua copiosa produzione poetica - sette raccolte dopo il debutto dell’88 - vi è un solo componimento intitolato ai fatti della storia recente: ai Giorni di Novembre vissuti di persona nell’89. È l'ultimo vate della nuova Germania, nato nel 1962 in un’antica città d'arte distrutta e totalmente ricostruita, ma dialoga in rime e ritmi con maestri più lontani e latini: Orazio, Giovenale, Seneca. È l’erede incoronato - nel ’95 con gli allori del Büchner Preis che cinsero la fronte di Benn, Celan e Bernhard - di una lunga tradizione di poesia speculativa, meditazione lirica, ma si ispira alla scienza. È materialista, darwiniano dichiarato, ha dedicato al padre del razionalismo d’Occidente - Réné Descartes - una poderosa opera in versi: biografia in 42 canti, monumentale poema narrativo in esametri alessandrini. Arriva da Nord nel pieno della canicola d’estate per portare oggi al Parma Poesia Festival il ristoro refrigerante Della Neve. Ovvero Cartesio in Germania: l’ultimo suo titolo apparso in italiano, nella traduzione di Anna Maria Carpi (Einaudi) dopo l’imponente antologia A metà partita (1999) e Il primo anno (2004). Durs Grünbein, 44 anni, è una figura cruciale - assiale - della cultura tedesca. Ma sulla sua pagina incrocia - con l’eleganza degli assi cartesiani - semirette che si allungano a coordinare universi abissalmente lontani. Il cosmo della scienza e quello della poesia, per esempio.
Durs Grünbein, è insolito, per non dire scandaloso, che la poesia tragga i suoi motivi dal pensiero scientifico. La scienza non pensa, diceva Heidegger esegeta di Hölderlin e Trakl.
«Più che la scienza, a me interessano la ragione scientifica, lo stile della tecnica: la forma della razionalità che dagli esordi dell’età moderna ha dato l’impronta al nostro mondo senza che nemmeno più ce ne rendiamo conto. Ha improntato la sociologia e l’economia oltre che la biologia, la fisica e la chimica. Nessuno può prescinderne. Nemmeno il poeta».
Della neve ovvero Cartesio in Germania. Cartesio, ovvero il pensiero all’origine della modernità e della razionalità. Che cosa rappresenta il teorico del Cogito ergo sum?
«È il Filosofo per eccellenza, così come Dante è per eccellenza il poeta. Descartes è il padre del pensiero moderno, ha fondato il dubbio come metodo, ha disegnato i contorni del nostro mondo. Colto, aristocratico, cavaliere, raffinatissimo nell’educazione, partecipe agli eventi del tempo».
È anche una figura drammatica: colpisce la condizione di desolata solitudine in cui concepì il suo pensiero.
«Sì, era solo nell’inverno del 1619 quando, bloccato dalla neve vicino a Ulm, di ritorno da Francoforte dopo l’incoronazione del Kaiser Ferdinando II, fu colto dalle sue intuizioni decisive».
E la neve? Il freddo della stagione creativa e della stagione finale - l’inverno del 1649 in cui morì a Stoccolma di stanchezza e malattia - che cosa rappresenta?
«Il cristallo di neve, perfetto, esagonale, è il modello della ragione geometrica. E l’inverno è la stagione più propizia alle intuizioni della filosofia: ci mostra la natura nel rigore delle sue leggi. Io credo però che Cartesio, costretto per forza maggiore nella prigionia di quel paesaggio gelato, cercasse di apportarvi dinamismo e calore».
Invernale, innevata, è anche la Dresda che, in un suo componimento descrive come «La città in un turbine di fiocchi». È questo il ricordo che ha della natia città orientale?
«Ma quella non era neve. Per me Dresda è chiusa dentro una sfera di vetro. Se l’agito comincia a fioccarvi sopra una cascata di bombe. È una città perduta, un tesoro sepolto. Ma proprio per questo è un gioiello da disseppellire. È sempre così per i beni della cultura e dell’arte: devono conoscere una fine perché possiamo valutare il loro pregio. La “mia Dresda” è una città barocca, la più italiana delle città tedesche».
(N)ostalgia?
«No: Dresda è l’elegia. È il sogno. È bene che resti un ricordo».
Non così elegiaco però lo scenario urbano che descrive come la Zona grigia al mattino delle sue poesie d’esordio.
«Quella è la Dresda socialista, ricostruita dopo i bombardamenti del ’45 nel piatto grigiore dell’architettura sovietica, bruttissima».


Ma non c’è traccia nelle sue poesie di risentimento nei confronti del blocco orientale. Poesia disimpegnata?
«Il compito della poesia non è l’impegno ma il ricordo: è il metronomo del tempo. E il nostro tempo è votato allo scettiscimo e all’indecisione sistematica, come il barocco di Cartesio.

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