"Ho terrorizzato la Scala. Dicevano: dirigerà in turbante"

Il celebre direttore d'orchestra indiano, seguace di Zoroastro, svela le sue passioni e il complicato esordio in Italia, 55 anni fa...

"Ho terrorizzato la Scala. Dicevano: dirigerà in turbante"

«Guardi come è morbido e leggero. È un tessuto indiano!». A dimostrazione di quanto ha appena detto, si sfila la fede, e vi fa scorrere il foulard delle meraviglie. Il direttore d'orchestra Zubin Mehta è fatto così. Autentico e spontaneo. Signore dai modi gentili e allo stesso tempo uomo concreto che vuole sempre fare centro, raggiungere l'obiettivo che si è prefissato. Per questo non ama perdere tempo, anche tenendo conto del fatto che l'agenda organizzata in modo teutonico non gli offre grandi margini per variazioni improvvise di programma. Autoironico ed essenziale ha in queste due caratteristiche una sorta di antidoto utile a evitare il rischio di perdersi nel labirinto dei capricci d'artista, come invece accade ad altri suoi colleghi. L'atteggiamento appare immune dalle vanità e dalle fragilità delle «stelle», categoria alla quale appartiene ormai da decenni.

Nato a Bombay nel 1936, Mehta ama da sempre il basso profilo, anzi, bassissimo; eppure è stato scelto come uomo copertina dal settimanale Time e il New York Times lo ha menzionato 2.300 volte, come e più di un presidente americano. Critici e osservatori sono d'accordo nel presentarlo come un monumento vivente della storia dell'interpretazione musicale. Il suo primo concerto da direttore d'orchestra è del 21 luglio 1956, in Austria, e da allora Mehta ha cumulato la bellezza di ottomila presenze sul podio, così come risulta da un calcolo fatto da Francesca Zardini che sta ultimando il riordino dell'archivio di questo artista, attivo da 61 anni. Se gli si domanda: «Maestro, ha un database di tutti i concerti fatti»? Lui risponde semplicemente con un «sì, è tutto qui», indicandosi la fronte. Subito, però, s'affretta a informarti che la «signora Zardini, non so se la conosce, era al Maggio fiorentino, sta facendo un lavoro incredibile. Ha raccolto locandine, programmi, date dei miei concerti. Che pazienza...».

Basta parlargli, anche per poco tempo, per accorgersi che nella sua memoria ha ben chiara ogni data, singolo evento, programmi, reazioni. Tutto. Ha condotto le più grandi orchestre del mondo, con lunghe permanenze a Los Angeles, New York, Monaco, Tel Aviv e nella nostra Firenze. Ha firmato 90 prime assolute di lavori contemporanei e padroneggia un repertorio vastissimo.

Alla Scala, dove il Giornale lo ha incontrato, dirige regolarmente da 55 anni. Dopo due mesi non stop, tornerà quest'estate, fra un Don Carlos a Firenze e il Fidelio al San Carlo di Napoli. Fra le sue medaglie al valore, c'è anche quella di essere stato uno dei primi a sdoganare le esibizioni di musica classica e lirica in stadi e piazze. Memorabile è rimasto il concerto di Caracalla dei Tre tenori. Ovvero la santissima trinità lirica: José Carreras, Placido Domingo, Luciano Pavarotti. E lui sul podio.

Sono passati 17 anni dalla prima edizione dei Tre tenori. Dopo quella serata il mondo della lirica non è più stato lo stesso. Si aspettava di scatenare un fenomeno del genere?

«È vero, quel concerto ebbe un impatto incredibile. Ma tutto andò ben oltre i nostri propositi. Non intendevamo educare alla lirica, attirare il grande pubblico nei teatri d'opera. Volevamo semplicemente dare il benvenuto a Carreras che tornava a cantare dopo la malattia. Era un incontro fra amici, tra l'altro uniti dalla comune passione per il calcio, tanto che cantammo alla vigilia della finale dei campionati del mondo di Italia '90. Le esibizioni erano gratuite, anche se la casa discografica Decca vendette dischi per quasi venti milioni di euro. Certo... avrebbero potuto regalarci almeno una penna a Natale... ».

Calcio, ha detto. Non era il cricket il suo sport del cuore?

«Su questo non c'è dubbio. Guardi, prima che lei arrivasse stavo leggendo The Times, il quotidiano britannico. Ho guardato le ultime notizie dalla Siria, che dolori... Poi per riprendermi, sono passato al mio cricket».

Il cricket è una passione tutta indiana

«E io sono indiano. Mangio indiano, ho passaporto indiano, questo foulard è indiano...».

Lasciò Bombay a diciott'anni. Tante cose sono cambiate nel suo Paese. Si riconosce nell'India di oggi?

«Vado fiero del mio Paese. La stampa è libera, dice di tutto, come accade in Italia. C'è ancora tanta corruzione, anche se forse va un po' meglio di prima. Il primo ministro è pulito, ma chi ruota attorno a lui, chissà. È appena passata una legge che danneggia i più deboli. Sono state messe fuori corso le banconote più usate dalle classi disagiate, da quanti non hanno un conto in banca. Dicono che è una strategia per combattere la corruzione. Ma che ne sarà di questi poveri? Per loro è un disastro».

L'anno scorso ha fatto il giro del mondo per i concerti in omaggio ai suoi 80 anni. La tappa a Mumbai deve essere stata speciale...

«Non dimenticherò mai quel giorno. Eravamo nello stadio di cricket, davanti a una platea di 14mila persone. Andrea Bocelli è venuto apposta per cantare in mio onore».

Sembra emozionato mentre ne parla...

«Bocelli è una delle persone più delicate che abbia mai conosciuto. Con me, ha sempre voluto fare opera pura, non crossover tra generi diversi. Apprezzo la sua curiosità, legge un sacco di libri. Si informa su tutto. Dopo avere studiato pianoforte ora è passato al flauto. E mi piace vederlo andare a cavallo portandosi la bimba. Per lui ho un grande rispetto».

A proposito di Bombay. C'è ancora casa Mehta?

«Purtroppo no. E neppure ci sono i mie vecchi libri e dischi... ».

Quelli che doveva cambiare ogni cinque minuti?

«Sì, era impossibile ascoltare una sinfonia per intero. Dovevi mettere la sfilza di dischi, uno dopo l'altro, perché duravano troppo poco».

Quella casa era il nido d'affetti di una famiglia molto unita.

«È vero, però, più tardi anche i miei genitori la lasciarono. Io ero andato a studiare a Vienna, mio fratello a Londra. Papà (il musicista Mehli Mehta, ndr) aveva trovato un impiego come seconda spalla a Manchester, e poi negli Stati Uniti».

La sua famiglia è Parsi, giusto?

«Certo, sono e mi sento Parsi. Siamo sempre meno, circa ottantamila, eredi dei seguaci di Zoroastro che fuggirono dalla Persia per sottrarsi al dominio arabo. Per noi è molto importante l'educazione e l'atto del donare, aiutiamo molto i poveri».

Però lei ha studiato dai gesuiti

«Per ben undici anni. In classe c'erano ragazzi di sette religioni diverse. Ho sempre vissuto la mia città come un luogo in cui le culture si incontrano. A questa scuola devo una formazione eccellente, un'educazione profonda. Gli insegnanti erano spagnoli, o meglio, catalani. Affrontavamo tante materie, compresa composizione. Il mio maestro di contrappunto e fuga era stato allievo di Granados. Tutti i preti erano in gamba. Certo: le regole erano chiare e andavano rispettate senza discutere. Non si poteva sgarrare. L'unica cosa che potevamo scegliere erano le lingue aggiuntive, e tra francese, latino e indiano, scelsi il francese».

Lei a un certo punto, si ritrovò in Inghilterra, a Liverpool.

«Sì, avevo vinto un concorso, ma non mi trovavo bene con il direttore di cui ero assistente. Per questo, quando potevo, andavo a sentire le prove di Barbirolli, a Manchester. Che grande direttore, un fior di musicista...».

La sua carriera è iniziata con una serie di segnalazioni e last minute...

«Proprio così. Devo tanto alla Jeunesse musicale austriaca. Mi aiutò molto in quella fase».

Anche per questo Vienna rimane la città del cuore?

«Lì mi sono formato, sia all'Accademia musicale con Swarowsky: che insegnante! Sia assistendo a concerti, a prove, intrufolandomi nel coro, e nell'orchestra come contrabbassista».

A 25 anni era sul podio dei Berliner e dei Wiener. Le tremavano le gambe?

«No, anche se ero nervoso. Dirigevo la Sinfonia in tre movimenti di Stravinskij. Per fortuna non era molto conosciuta. E io ne ero consapevole».

Deve comunque avere fatto colpo se da quel giorno l'hanno sempre voluta...

«Alla fine della prova generale effettivamente gli applausi non mancarono. Subito dopo, il Don Chisciotte...».

Oggi ha casa a Los Angeles e in Toscana, ma dove ha la sua biblioteca, la sua base, insomma?

«A Los Angeles. Però guardi che in Toscana di case ne ho tre, tutte fuori Firenze, dalle parti di San Casciano».

Anche lei produce vino?

«Fino a poco tempo fa olio. Nei ristoranti potevi trovare l'olio di Nancy, mia moglie, e Zubin Mehta. Però con l'olio non si fanno soldi. Troppo lavoro e spese: ci sono le etichette, le bottiglie... Ora teniamo qualcosa per noi, per uso domestico, e basta. Gli ulivi sono 2.500, veramente belli. Sono in una posizione strategica, mi dicono fra le migliori della regione».

La sua collaborazione con il Maggio fiorentino sembra rallentare. Terrà comunque le sue residenze?

«Certo. Io e mia moglie siamo molto legati alla Toscana. C'è un problema però: hanno rubato tante volte. Troppe...».

Siamo alla Scala, lei ha diretto. qui per la prima volta 55 anni fa. Si racconta che l'allora sovrintendente, Ghiringhelli, fosse disorientato per la sua provenienza.

«Tanto che disse al direttore artistico Siciliani: "L'anno scorso avete invitato quel giapponese", che era poi Ozawa, "adesso volete far venire un indiano, magari arriverà col turbante. E tutto questo alla Scala, il tempio della musica...". Per fortuna Siciliani insistette, anzi quando andò alla Rai mi chiamò anche lì. Il concerto era poi andato bene, comunque».

Presentò autori all'epoca impossibili, come Webern e Schoenberg

«E infatti la sala era mezzo vuota, ma mi lasciarono fare».

Con Ghiringhelli come andò a finire?

«Che diventammo amici, e lo stesso con Paolo Grassi, il suo successore».

La rete di rapporti umani incide non poco nella carriera di un direttore.

«Assolutamente sì. Vale anche oggi. Per dire, sono molto amico di Alexander Pereira, attuale sovrintendete. E amico vuole dire che ci diciamo quel che pensiamo, senza barare. Vi possono anche essere discussioni, confronti duri, ma tutto dev'essere detto. Questo per me vuole dire essere amici».

Se non fosse stato un direttore d'orchestra?

«Non posso immaginare altra professione per me. Sono cresciuto nella musica. Non ricordo se prima ho iniziato a parlare o a cantare. La nostra casa era piena di musica. Papà iniziava a studiare violino prestissimo, di buon mattino, poi dava lezioni, quindi c'erano le prove di quartetto».

Che difetto umano si riconosce?

«Sono così tanti..., l'impazienza innanzitutto. Per fortuna c'è mia moglie che mi controlla».

E quanto alle qualità...

«Sono un musicista onesto, rispetto le partiture, il credo e lo stile di un compositore».

Lei ha diretto, praticamente ovunque, migliaia di concerti. Podi, teatri, aeroporti. Con che frequenza riesce a vedere o sentire i suoi figli?

«Il maschio una volta ogni sei mesi (il viso si fa cupo, ndr). Mia figlia invece ogni giorno. È infermiera, mi è stata molto vicina quando non sono stato bene. Vive a Montreal, ma ogni giorno mi telefona».

Lei stesso

lavorò per qualche anno a Montreal.

«Che città fredda... D'inverno ci sono 20 gradi sotto zero. Pensi che il papà della mia prima moglie morì d'infarto spalando la neve fuori casa. E lì bisogna spalare tutti i giorni».

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