I 25 milioni di Della Valle per il Colosseo Era ora: sta tornando l'era dei mecenati

Della Valle offre 25 milioni per restaurare il Colosseo dimostrando di volere il bene del Paese. E se anche pretendesse pubblicità non sarebbe uno scandalo

I 25 milioni di Della Valle per il Colosseo 
Era ora: sta tornando l'era dei mecenati

«Si può dare di più». Questo, potremmo dire, è il motto che ispira i grandi mecenati. In America da sempre, in Italia a partire dagli anni ’60 con alcuni uomini straordinari e anche con innamorati dell’Italia che la scelsero per vivere e per lasciarvi i loro capolavori. Penso a Peggy Guggenheim che ha costituito in Italia il suo museo, il più importante di arte contemporanea nel nostro Paese, o a Bernard Berenson, la cui Fondazione a Firenze è legata ad Harvard come il Guggenheim di Venezia a quello di New York. Per restare a Venezia in tempi recenti, le collezioni di monsieur Pinault sono ospitate e aperte al pubblico in Palazzo Grassi e a Punta della Dogana, senza spese per la pubblica amministrazione.

Addirittura durante il Fascismo si ricordano i Treccani degli Alfieri, i Volpi di Misurata, i Gualino ma, subito dopo, e in grande anticipo, Vittorio Cini con l’istituzione della fondazione dedicata al figlio Giorgio, sempre a Venezia. E poi Jesi, Jucker, Luigi Magnani e Panza di Biumo. E ancora, a Prato, Pecci e, a Roma M.P; e a Napoli Lucio Amelio, per non parlare di innumerevoli fondazioni di diversa ispirazione e missione. Penso alla straordinaria, per compiutezza e quantità d’opere, fondazione Burri nei bellissimi spazi degli essiccatoi di Città di Castello.

Dunque non c’è da stupirsi se oggi Diego Della Valle si offre come sponsor unico per il Colosseo. Non gli va richiesto neppure il pudore che egli ha manifestato dichiarando: «non voglio fare un’operazione commerciale. Non vedrete mai una scarpa o una borsa appesa al Colosseo». Non ne saremmo infastiditi, giacché l’arte contemporanea ci ha abituati a contaminazioni sovrapponendo spesso velleitari conati a monumenti antichi o allestiti in spazi solenni come è accaduto con le opere di Franz West in Piazza di Pietra a Roma. Perché non deve essere consentito a Della Valle con le sue invenzioni ciò che è consentito a un artista con trovate spesso discutibili? A lui come a ogni sponsor si deve chiedere soltanto buongusto, concetto del quale oggi si ha un’idea molto vaga. E a chi, come Della Valle, offre 25 milioni non sembra necessario chiedere di partecipare a un bando. Inoltre il ministero dei Beni Culturali ha dovuto riconoscere che chi aveva partecipato alla gara aveva fatto «offerte inadeguate».
Espletate dunque le pratiche di rito, appare giudiziosa la posizione del commissario per le aree archeologiche di Roma Roberto Cecchi: «il bando pubblico che si è chiuso il 30 ottobre è quanto la legge ci imponeva di fare. Ora si può aprire una procedura negoziata con il gruppo Tods». Della Valle ha manifestato il giusto orgoglio di un italiano per il patrimonio artistico italiano e ha ritenuto, com’è logico, che il solo accostare il nome della propria azienda al Colosseo nel suo incommensurabile valore simbolico fosse onorevole, degno di ammirazione e riconoscenza, e per ciò vantaggioso per la sua immagine di uomo d’impresa che accetta una sfida importante. Un ragionamento da statista che ci saremmo augurati di sentire per esempio da Luca Cordero di Montezemolo, viste le sue ambizioni. Forse la decisione di Della Valle prelude a una candidatura come leader del terzo polo, con pregevoli attributi.

Fuori discussione che siamo il Paese più ricco del mondo per patrimonio artistico: se vendessimo le opere degli Uffizi avremmo azzerato il debito pubblico. Quindi, finiamola di considerarci una nazione povera. E anche di insistere sull’autolesionistica considerazione che lo Stato destina nel suo bilancio solo lo 0,20 per cento delle risorse per la conservazione e la tutela dei Beni Culturali, una miseria rispetto a Francia, Germania, Inghilterra. Non è vero. Lo Stato non è soltanto l’amministrazione statale, ma anche le amministrazioni regionali, provinciali e comunali, le fondazioni e gli istituti bancari, i privati come il Fai, che finanziano restauri e musei. Perché lo Stato è la coscienza del bene. Dal Monte dei Paschi alla Fondazione Roma alle diverse fondazioni della casse di risparmio, centinaia di milioni di euro vengono spesi ogni anno per restaurare chiese, palazzi, affreschi, dipinti e per promuovere e organizzare mostre. Molto spesso senza diretto intervento del ministero dei Beni Culturali, che vigila e non sempre spende.

Se mettiamo insieme tutti i finanziamenti di questi soggetti (senza includere Della Valle), arriviamo ben oltre lo 0,20 per cento e probabilmente verso il 2 per cento: senza paragone con gli altri Paesi. Spesso, al contrario, è la macchina burocratica a respingere i finanziamenti, se è vero che dei magri finanziamenti dello Stato quasi la metà non viene spesa e si configura come residuo passivo che le sovrintendenze restituiscono. Circa 670 milioni di euro l’anno. Ma è irresistibile la voluttà di piangersi addosso, di stracciarsi le vesti, di aprire la strada al soccorso di uomini generosi e illuminati, anche se non disinteressati. Per poi creare inutili difficoltà. Bella resta la conclusione di Della Valle: «Non vi preoccupate, non mi interessa coprire un bene che è della comunità con cartelloni pubblicitari. È una questione culturale. Anche per dimostrare al mondo che cosa sappiamo fare quando serve. Mi auguro che altri imprenditori facciano lo stesso, magari per Pompei».

Sperando che almeno i soldi privati vengano spesi, visto che quelli pubblici (80milioni per Pompei) sono rimasti in banca. E perché il Della Valle che è in Bondi, che a Pompei i soldi li aveva dati, dovrebbe pagare per i crolli? Se dopo aver dato 25 milioni per il Colosseo ne crollasse una parte, sarebbe colpa di Della Valle?

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