I Bronzi, Giotto o Mantegna non sono più fragili di noi

I sovrintendenti hanno paura di far viaggiare le opere per il mondo Invece con la tecnologia e il buonsenso si possono mandare in tournée

I Bronzi, Giotto o Mantegna non sono più fragili di noi

La fragilità delle opere d’arte è costituziona­le, come quella delle persone. Gli esseri umani sono delicati, patiscono il caldo e il freddo. Si possono ammalare. E guariscono.Le opere d’arte han­no questo vantaggio: non hanno mai malattie mortali. Possono avere disagi, alterazioni. E talvol­ta da una febbre momentanea possono tornare a una condizio­ne di normalità. Come in altri or­ganismi anche in quelli in cui le opere consistono, marmi, metal­li, tavole, pigmenti di colore, ci possono essere processi di rever­sibilità. Ma una cosa è certa: le opere d’arte non muoiono, ma hanno comunque una speranza di vita molto più lunga della no­stra.

Anche mia madre è fragile: ep­pure si sposta in automobile, prende aerei, e ritorna a casa in buone condizioni. Una vecchia amica conosciuta a Tangeri che, se non è scomparsa, oggi ha cen­tocinque anni, al compimento del suo centesimo compleanno, si è regalata un volo con il paraca­dute. Ma, soprattutto, ai suoi ses­santadue anni, è abbastanza fra­gile Mario Resca che, da qualche tempo, si muove continuamen­te, e ritorna al ministero sano co­me prima. E fragile sono anch’io che sono un uomo prezioso e che potrei rischiare, fra mille spo­stamenti, di essere danneggiato o, addirittura, di cadere con un aereo e scomparire.

Naturalmente questo va­le anche per le opere d’arte: ed è quindi sconsigliabile farle viaggiare in aereo. Partirei di qui per entrare nella pole­mica sui bronzi di Riace, innescata da una considera­z­ione del fragile Re­sca che aveva detto che i due bronzi stan­no a Reggio a prendere polvere. Oggi corregge di­cendo che la sua era una meta­fora. In realtà molti beni cultura­li prendono polvere, non è male: perché la polvere protegge. E, benché atleti, non sarebbe augu­rabile che i due bronzi fossero messi a lucido per andare in giro da una festa all’altra,da un party all’altro,per rappresentare il no­stro patrimonio artistico. Ma proprio per questo, non è esclu­so che qualche volta lo facciano, con obbiettivi e organizzazioni opportune.

Occorre dunque partire dalla premessa che le opere d’arte so­no meno fragili di noi e che la lo­ro tutela non è particolarmente difficile, richiedendo prudenza e buonsenso. Ma i margini di ri­schio sono oramai inesistenti con l’avanzamento della tecno­logia che dà ogni garanzia per i trasferimenti. Non è un mistero che proprio i bronzi di Riace ab­bi­ano casse predisposte per il lo­ro trasferimento di sofisticatiss­i­ma elaborazione, che consento­no alle statue, imbragate, anche di galleggiare. D’altra parte ven­gono dal mare, anzi, sono state sott’acqua per duemila e quat­trocento anni, forse duemila tre­centocinquanta. Le abbiamo ri­trovate come le vediamo. E lo posso dire io che le ho viste per primo.

Nel 1972 ero arrivato a Reggio per vedere le due tavolette di An­tonello da Messina. Credo fosse luglio o agosto. Un custode, pre­cursore dello spirito di valorizza­zione di cui Resca è emblema, mi annunciò, in cambio di una piccola mancia, la rivelazione di una straordinaria scoperta. Aprì una porta e io vidi distese, su quattro cavalletti, le due sublimi sculture. Erano state recuperate da una settimana e depositate al Museo nazionale. Non ebbi al­c­un dubbio sulla loro importan­za e mi sembrò naturale che esse fossero rarissime testimonianze dell’arte greca del V secolo a. C. Le datai intorno al 475-80 a.C.co­me poi una più approfondita vi­sione ha consentito di conferma­re, a me e a quasi tutti gli studiosi di archeologia. Al mio sentire, es­se erano concepite da un artista greco poco dopo il maestro di Olimpia. Ma queste sono consi­derazioni storico-artistiche. In realtà mi colpirono per le lo­ro condizioni, straordinaria­mente buone per la situazione sfavorevole nella quale si erano trovate dopo l’affondamento della nave che le portava. Non ne seppi più nulla per otto anni finché esse non furono opportu­namente, e senza alcuna pubbli­­cità, esposte al Museo archeolo­gico di Firenze. Se ne parlò tan­to. Un tam-tam efficace, tanto che Pertini le volle al Quirinale. Le statue si preparano all’occa­sione e mezzo mondo le vide. Tutti ne parlarono e iniziò la loro leggenda. Come si può pensare che sia­no fragili sculture che hanno pa­tito il peso dell’acqua di mare per 2.400 anni? Lo spiritoso so­vrintendente di allora, France­sco Nicosia, non ebbe dubbi nel farle muovere da una parte all’al­tra, ed era stato lui a volere il lun­go restauro che le aveva liberate di incrostazioni e terra in una im­presa sicuramente impegnativa ma non particolarmente diffici­le.

Furono quegli otto anni a con­sacrare l’idea che le opere fosse­ro d­elicate e fragili avendo richie­sto un tempo lungo per essere re­staurate. In realtà quando io le vi­di nel ’ 72 non erano molto diver­se da come poi sono diventate con quel magistrale intervento. È chiaro che vanno seguite e che, dopo trent’anni,la tecnolo­gia, anche nel restauro, può of­frirci qualche ulteriore contribu­to relativo, per esempio, alla loro stabilità. Ma ogni riferimento al­la consistenza e allo spessore del bronzo è ridicolo, e non può esse­re indicato come ragione di una difficoltà di spostamento. In con­dizioni molto più fragili, e anche frammentarie, è, per esempio, il Satiro danzante di Mazara del Vallo, che ha viaggiato il mondo come un forsennato ritornando in condizioni perfette. Un illu­str­e studioso come Salvatore Set­tis non ebbe nessuna remora nel chiedere lo spostamento di un’opera infinitamente più fragi­le quale l’ Efebo di Mozia , scultu­ra non meno importante dei due bronzi, realizzata in marmo pa­rio, costituzionalmente più espo­sto al rischio di vibrazioni. Si so­no mosse poi tavole di Giotto, di Botticelli, di Piero della France­sca, per loro natura e per il preca­rio rapporto tra il colore e il sup­porto, naturalmente più a ri­schio dei due bronzi. Non si capi­sce dunque perché soltanto per loro debba essere evocata que­sta condizione di fragilità.

È piuttosto la fragilità delle menti di quelli che ne parlano che dovrebbe preoccupare per­ché i bronzi sono trasferibilissi­mi e assai opportuno sarebbe che lo fossero in almeno tre sedi, ad Atene, a New York e a Pechi­no, stabilendo una comunica­zione del nostro patrimonio di formidabile potenza, nei luoghi dove c’èil maggior potenzialedi passione per l’Italia e stabilendo opportuni scambi. Avevo inizia­to con il ministro alla Cultura gre­co a richiedere in cambio dei due bronzi l’ Auriga di Delfi . Sa­rebbe stato uno scambio onore­vole ma qualche deficiente di­chiarò che dei due bronzi uno non era trasferibile, uno era più fragile dell’altro.Non so sulla ba­se di quale perizia. Certamente era un pretesto come quello che oggi le autorità non competenti, Regione e Comune di Reggio Ca­­labria, accampano per negare il prestito, millantare un orgoglio municipale, il rischio che le ope­re non vengano restituite. Tutte scemenze. In realtà le opere appartengono allo Stato, non alla Regione né al Comune, e lo Stato ha il diritto di valorizza­r­le nel modo più opportuno. D’al­tra p­arte con intelligenza fu invia­ta a Tokyo l’ Annunciazione di Le­onardo, e io stesso inaugurai una mostra di affreschi (fragili, fragilissimi) provenienti da Pom­pei. Ridicola è stata anche l’ini­ziativa di duplicare in copie i bronzi spendendo circa un mi­lione di euro. È a tutti evidente che l’attrazione di Naomi Camp­bell dal vero è diversa da una sua riproduzione, e che quindi spen­dere soldi per copie è un modo per buttarli. Dunque si può con­se­ntire alle autorità locali, che de­vono prendere atto della sottoe­sposizione dei bronzi e, soprat­tutto, della assoluta condizione di privilegio di avere l’opportuni­tà del museo in restauro, di chie­d­ere una onorevole e giusta con­tropartita che i musei stranieri potrebbero accordare sia a Ro­ma­sia a Reggio per la ecceziona­lità del prestito e senza particola­ri difficoltà.

Le ragioni invocate come ab­biamo visto sono tutte di caratte­re sanitario, e tutte infondate, le stesse che tentarono per impe­d­irmi di esporre a Mantova in oc­casione delle grandi celebrazio­ni mantegnesche il Cristo morto di Brera o che indussero a impe­dire il trasferimento della Con­versione di San Paolo della colle­zione Odescalchi di Caravaggio a Mantova nel 2005, per inviarla poi a Palazzo Marino nel 2008. L’una e l’altra,peraltro,più fragi­li dei bronzi. Ma nessuna insensatezza su­pera la proposta indecente del solito dilettante spiritoso, Fran­cesco Bonami, che, indeciso fra le ragioni del prestito e quelle del­la astratta tutela, propone di ri­nunciare ai bronzi e inviare in gi­ro per il mondo due pesantissi­mi e pressoché intrasferibili mar­mi come la Pietà Rondanini e il David di Michelangelo o il Per­seo di Benvenuto Cellini. Pro­prio le condizioni di restrizione e di limitato turismo di Reggio Ca­labria inducono a ragionare sui bronzi per consentir loro di svol­gere per una volta nei prossimi vent’anni una funzione di pro­motori a vantaggio dell’Italia e a limitato danno per Reggio. Bona­mi forse non sa che all’Accade­mia di Firenze dov’è il gigante­sco David , ben difficile da sposta­re anche per le dimensioni, van­no un milione e 300mila turisti all’anno per vedere questo sex symbol etero e omosessuale. Se Bonami prova a toglierlo da Fi­renze la reazione dei cittadini renderebbe tenue quella della ’n­drangheta.

La quale peraltro, in­tesa come mentalità, è l’unico ve­ro potere che ostacola il prestito dei due bronzi.L’operazione in­fatti non dovrebbe essere con­d­otta dal ministero ma dall’Anti­mafia. A vantaggio della Cala­bria, dell’Italia e del mondo.

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