I «poliziotteschi», fra la banda della Magliana e il terrorismo

Gli «spaghetti western» vennero dopo i «western». Ma i «poliziotteschi» italiani vennero prima dei vari ammazzasette alla Mel Gibson e alla Bruce Willis, in contemporanea con i molteplici giustizieri della notte (che poi è uno solo, Charles Bronson, alla lunga un imbolsito imitatore si se stesso). I poliziotteschi... all’amatriciana (o alla casoula, o al pesto, o con la ’a pummarola ’n coppa, o alla bagna càuda) dei quali il pubblico si abboffava nelle sale, nacquero nel putrido brodo di coltura in cui sgazzavano, fra l’altro, le cellule impazzite del terrorismo.
Sono fratelli maggiori della «generazione Magliana», intesa come la banda che, riadattata da Giancarlo De Cataldo, ha dato origine a Romanzo criminale, prima sulla carta, poi al cinema e quindi in tv. Sono come il prequel di una strada lastricata da innumerevoli morti ammazzati veri, fatti di carne e sangue, non di manichini e succo di pomodoro. L’Italia degli anni Settanta li guardava e, guardandoli, vi si riconosceva: la stessa paura del cittadino comune, la stessa impotenza delle forze dell’ordine, la stessa voglia di sbrigarsela da soli, comperando una pistola dall’armaiolo amico di un amico... E quelle Alfa Romeo Giulia, quelle 128, quelle Renault 4, quante volte le abbiamo sentite davvero sgommare rabbiose per inseguimenti e fughe senza ritorno? E i baffi biondi e gli occhi di ghiaccio di Maurizio Merli, e il ghigno di Tomás Milián che spuntava dalla barba nera alla Serpico, e le ragazze con le gonne corte e le calze smagliate, cadute innocenti sull’asfalto, e le bische nei bar di periferia, e le marche di sigarette ostentate per dare un po’ di ossigeno alla produzione. E la fine che non era mai la fine, perché la violenza stava nelle cose, in ogni pagina di cronaca, e finiva dritta dritta in «prima».
Roma, Milano, Genova, Napoli, Torino. Il post-boom era un pre-boom, nel senso che il miracolo economico si stemperava e lasciava spazio all’esplosione di una cruda realtà dominata da chi pretendeva tutto e subito, a ogni costo, anzi senza pagare: soldi facili, macchine potenti, donne disponibili, politici e industriali da tenere al guinzaglio. Qualcuno incominciava a parlare di «pezzi di Stato deviati», e non si capiva bene quale fosse il problema. Poi s’è capito. Piazza Fontana c’era già stata, Piazza della Loggia e l’Italicus erano lì dietro l’angolo a venire o quello appena passato. Intanto il cinema che cosa poteva fare, se non registrare il fenomeno, andar dietro agli umori della gente, scendere «nel sociale» senza darlo a vedere, con in una mano il revolver e nell’altra l’incasso della giornata?
Certo, la forma, il lessico «di genere», spesso prendeva il sopravvento sul contenuto. Ma del resto il contenuto, il copione, era scritto a caratteri cubitali nella mente dello spettatore, non c’era bisogno di sceneggiarlo più di tanto. I traffici internazionali di droga, lo sfruttamento della prostituzione, la strategia della tensione, i terroni e i polentoni, gli studenti con strane idee per la testa... Nei film di Enzo G. Castellari (cioè Enzo Girolami), Franco Martinelli (cioè Marino Girolami), Umberto Lenzi, Stelvio Massi che Iris (il canale del digitale terrestre da tre anni dedicato ai film di culto) da gennaio riproporrà per un «come eravamo» fuorilegge in seconda serata troviamo tutto ciò e altro ancora. Sarà un amarcord agro come le vite spese sugli on the road made in Italy della Casilina e della Paullese, delle vie del centro dove papponi e cumenda si pavoneggiavano con la bella di turno.

Un rimescolamento delle budella e delle coscienze senza esclusione di colpi. Trenta e più anni se ne sono andati portandosi via tante cose e lasciandone altre di cui avremmo fatto volentieri a meno. Sono le nuove pagine di un interminabile romanzo criminale.

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