I romanzi più belli sono quelli mai scritti

Vuoto assoluto di Stanislaw Lem è una collezione di lunghe recensioni a volumi inesistenti. Purtroppo

A un certo punto s’era rotto le balle della fantascienza. E allora a che cosa si dedicò? Alla fantacritica letteraria. Poteva farlo perché era un cervellone a tutto tondo che fra l’altro sapeva anche scrivere molto bene. Intendiamoci, la fantacritica letteraria non l’ha certo inventata lui. Ma lui, Stanislaw Lem (1921-2006), l’ha portata alle estreme conseguenze, in un ineguagliabile gioco di specchi da far girar la testa. Un gioco che guardacaso inizia dal soggetto narrativamente più fertile, quello dell’uomo solo su un’isola deserta, e termina con una passeggiata sull’ultimo lembo di terreno comune alla scienza e alla filosofia prima del baratro dell’inconoscibile: il mistero della vita e di Dio.

Non solo, il primo capitolo di Vuoto assoluto, questo viaggio in una biblioteca di libri inesistenti (ma possibili) riguarda proprio... Vuoto assoluto di Stanislaw Lem. Qui l’autore, a mo’ di introduzione, con il pretesto di criticare se stesso prima rende omaggio a due suoi «simili», Borges e Rabelais, e poi lascia cadere una frasetta che ha tutto l’aspetto della prima pietra posata per la colossale costruzione delle pagine a venire: «Lo scrittore smarrisce la libertà nella propria opera, il critico in quella altrui». È proprio così: lo scrittore si esilia nella cella claustrale di ciò che scrive, e il critico, quando va a trovarlo (a leggerlo), diventa per un po’ suo ospite, quindi suo ostaggio.
Tuttavia Lem sa benissimo che qualcosa di vero deve dircelo, per guadagnare la nostra attenzione e forse la nostra benevolenza. Se la sbriga in quattro righe scarse: «L’astinenza protrattasi per anni da un realismo sano e nutriente, pensieri troppo distanti dalle proprie opinioni per esprimerli su due piedi, sogni assurdi e irrealizzabili - Vuoto assoluto nasce da tutto questo». E allora, diciamo noi, Vuoto assoluto non solo è un pieno assoluto di spunti, interrogativi, idee, ma è anche la biografia intellettuale di chi l’ha scritto.

Bene, ora che il libro torna sugli scaffali italiani, dopo vent’anni, per merito della casa editrice Voland (pagg. 250, euro 14, traduzione di Valentina Parisi, disponibile fra pochi giorni), possiamo entrare nel cantiere di Lem, non prima però d’aver indossato il caschetto d’ordinanza, per proteggerci da oggetti volanti non identificati sotto forma di pensieri arditi e solidi.

Dicevamo dell’inizio e della fine di questo percorso. L’uomo solo su un’isola deserta è il protagonista di Les Robinsonades. È un «apprendista creatore». Un folle, naturalmente, il quale mette in scena un mondo ipotetico e surreale, esponendosi alla seguente critica di un recensore che non è Lem e insieme, ovviamente, lo è: «La sola conseguenza possibile della creazione solipsistica è la schizofrenia, se l’esecutore è davvero coerente».

Quanto alla fine, al capolinea dell’Odissea lemmiana (escludendo la «prolusione tenuta dal professor Alfred Testa in occasione della cerimonia di conferimento del Premio Nobel» dal titolo La nuova cosmogonia), è il Non serviam di Arthur Dobb. Si tratta di «personetica», cioè della «produzione artificiale di esseri intelligenti», i «personoidi» (badate bene, Vuoto assoluto è datato 1974!). Questi poveracci hanno in comune con noi una sola dimensione, quella temporale, e «la consistenza del loro universo è puramente matematica». In altri termini, mentre noi obbediamo alla fisica, loro obbediscono alla logica, perché sono figli di calcolatori elettronici. E la loro condizione pone a noi, loro demiurghi per interposta tecnologia, un grave problema. Non possiamo, dice Lem, fare come i vivisezionisti di animali i quali «sostenevano di infliggere sofferenze (o semplici fastidi) a esseri privi di una coscienza sviluppata. No, in questo caso siamo responsabili due volte, prima creiamo nuovi esseri e poi li incateniamo agli schemi dei nostri procedimenti sperimentali. Possiamo rigirare la questione come preferiamo ma ci ritroveremo sempre con le spalle al muro».

Nel castello fatato di Lem abbiamo incontrato una rilettura della saga di Gilgamesh; un mondo ipersessualizzato; i deliri di un nazista alla Fitzcarraldo; un libro in cui nulla accade; un dramma familiare in stile Dostoevskij; un romanzo che si scrive da solo; l’elogio della «disarmonia prestabilita»; la

confutazione dell’esistenza stessa della vita. Ma l’imbarazzo del computer di fronte a un «personoide» che non può chiamarlo «papà» è il punto in cui si saldano fantasia e scienza. Con il collante di un nuovo umanesimo.

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