I romanzi terroristi non fanno i conti con la storia

Non è mai troppo presto per fare letteratura su un tema importante: ma c'è differenza tra raccontare e autoassolversi. La fretta di consegnare ai posteri la propria versione dei fatti è preoccupante. E' segno della volontà di nascondere qualcosa

I romanzi terroristi non fanno i conti con la storia

Benché dedicato a un tema in sé abbastanza ristretto (la moda letteraria degli anni di piombo, da qualche tempo esplosa nel nostro paese), l’articolo di Michele Brambilla uscito ieri su queste colonne tocca alcuni problemi molto grossi, sui quali è capitato anche a me di riflettere.

Anni fa ho scritto un romanzo intitolato Tornavamo dal mare, in cui anch’io affrontavo il tema del terrorismo. Questo giornale ospitò per l’occasione un dibattito tra il sottoscritto e l’ex-leader di Prima Linea, Sergio Segio. Scrivere Tornavamo dal mare rappresentò per me l’occasione, alla soglia dei cinquant’anni, di rileggere un pezzo di storia che mi aveva toccato molto da vicino.

Tuttavia, non si trattava della mia rilettura di un periodo storico, bensì di una storia molto personale: la storia di una donna che si vergogna di dire alla propria unica figlia di avere preso parte a quella follia, ma soprattutto che il padre di lei, la ragazza, è stato uno dei leader delle brigate rosse.

L’oggetto della poesia (e del romanzo) è la storia, diceva Manzoni, così come si dispiega nell’animo dei suoi protagonisti. Il narratore non deve fare bilanci, deve raccontare. E per raccontare bene deve conoscere bene la differenza tra microstoria e macrostoria, tra biografia e bilancio storico, tra l’adesione all’ideologia e l’ideologia stessa, e deve perlomeno intuire l’esistenza di quella cosa che si chiama eterogenesi dei fini: in altre parole, deve conoscere bene, come giustamente diceva Brambilla, la differenza - complessa ma chiarissima - che corre tra peccato e peccatore.

Non è mai troppo presto per fare narrativa su un tema importante. Che un narratore sia affascinato dalla figura di un terrorista, mi pare quasi fisiologico: entrare nella psicologia di un criminale, cercare di capire come si diventa assassini, scavando dentro un orrore che - in fondo - non ci è poi così estraneo, risponde a una curiosità quasi primaria, e può anche essere, a certe condizioni, un atto di grande pietà.

Se, poi, qualche scrittore dei miei stivali confonde la comprensione con la giustificazione, la colpa non è certo della letteratura, ma della stupidità personale e di una cultura dominante totalmente fondata sull’autogiustificazione e, se possibile, sull’autoelogio.

Uno scrittore serio sa che la conoscenza delle azioni umane comporta pietà verso il peccatore, questo sì, ma anche una necessaria inflessibilità nel giudizio sul peccato. Pensiamo al più grande libro sul terrorismo, che rende praticamente inutili tutti gli altri: I demoni di Dostoevskij. In questo romanzo, che tutti dovremmo leggere e rileggere, l’analisi del comportamento di alcuni personaggi fa emergere con evidenza l’orrore, la disumanità dei loro disegni. Per qualcuno di loro lo scrittore ha pietà, e ce li mostra impiccati, uccisi dal nulla di cui erano stati servitori. Altri, invece, scompaiono nel silenzio; il male ha consumato la loro umanità fino ad abolirla, così che non resta niente di cui avere pietà.

Ma, a proposito di cultura dell’autogiustificazione. Diciamola tutta. Quando un maître-à-penser come Erri De Luca sostiene che abbiamo metabolizzato gli anni di piombo, cosa volete che ne esca se non un bel pacco di letteratura-trash? De Luca ha molti pregi, ma non quello di parlare chiaro. Che significa «metabolizzato»? In che senso possiamo metabolizzare mille morti, cento morti, un solo morto? Stiamo parlando di omicidi, di padri e figli strappati alla vita, di famiglie straziate e di una giustizia che, per loro, spesso non è mai arrivata.

Come si fa a metabolizzare una tragedia in cui non di rado la giustizia italiana ha, di fatto, premiato gli assassini e condannato le vittime?

È così che ci si autogiustifica. Confondendo l’azione del tempo con una specie di assoluzione: eravamo giovani, non capivamo, adesso ci rendiamo conto dei nostri errori, e bla bla bla. Dio mio, come si fa a non vomitare? Simili posizioni di partenza producono solo vagonate di cinismo e di opportunismo (oltre che di pessima letteratura, ma questo è il meno).

Per finire, due parole sulla storia. Quanta fretta di chiudere i conti. I saggi, i profili storici, le sintesi letterarie, gli sguardi d’insieme, i bilanci su questo o quel decennio si succedono senza posa. Si decidono i libri più importanti della settimana, del mese, dell’anno, del lustro. Quanta fretta di consegnare ai posteri la propria versione dei fatti, facendola passare come oggettiva, ponderata, equilibrata. Chi fa così, di norma ha qualcosa da nascondere.

Ma noi sappiamo che i libri veri devono ancora arrivare, che la storia aspetta un passo più in là, e che

raramente le bocce stanno ferme. E attendiamo con timore, ma anche con curiosità, il nuovo trauma, lo svuotarsi di certi palazzi e, finalmente, l’apertura dei troppi archivi che, qui da noi, continuano a restare ben chiusi.

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