Lo sport, si sa, è una cosa seria: movimenta milioni di persone, miliardi di fatturato e a toccarlo si rischia grosso. E ogni Paese ha il suo sport prediletto: per l'Italia è il calcio, per gli Usa, su tutti, è il football. E proprio perché lo sport è una cosa seria la squadra della capitale americana, i Washington Redskins, rischia ora di finire alla sbarra alla Corte suprema, l'organismo giudiziario più importante degli Stati Uniti. Il problema? Semplicemente il nome, quel «pellirosse» che caratterizza la squadra dal 1933, quando la squadra giocava ancora a Boston, nel New England. I Redskins sono un «marchio» storico della Nfl (National football league), l'equivalente della Lega calcio per il football americano: è un po' come dire Milan in Italia, visto che per la rivista Forbes la franchigia vale oltre un miliardo e mezzo di dollari e l'anno scorso ha generato ricavi per 350 milioni. Ecco, ora immaginate cosa succederebbe se il Milan o la Juventus dovessero cambiare nome dopo una sentenza del giudice: ci sarebbe quantomeno un sollevamento popolare.
Eppure la Corte suprema americana sta per decidere proprio questo. Ovvero se, come sostengono sette attivisti per i diritti dei nativi americani, il termine «pellerossa», sia dispregiativo e non possa essere più usato, assieme magari alla mascotte e al simbolo, un indiano d'America di profilo, con tanto di penna. La querelle legale - e poi non si parli delle lungaggini della giustizia in Italia - è iniziata nel 1992, quando il gruppo di nativi americani ha deciso di attaccare la franchigia della Nfl, sostenendo che, in base al Lanham Act, una legge del 1946, il nome sarebbe «illegale» perché offensivo.
In effetti, stando a dizionario, la parola «redskin» avrebbe un significato spregevole. E proprio sull'accezione del termine (oltre che sul fatto che il brevetto sul nome è del 1967, vent'anni dopo la legge che teoricamente lo potrebbe vietare), si gioca la partita. Che è stata così riassunta da Suzan Harjo, una dei querelanti, in un'intervista con un columnist del Washington Post. «Noi abbiamo avviato la causa, loro hanno risposto che ci stavano onorando, noi abbiamo detto che non era vero e loro ci hanno invitato a tacere».
Una descrizione che, quantomeno, ha il pregio di riassumere in maniera sintetica 17 anni di battaglie legali. In effetti, non è facile capire come una squadra vincente come i Redskins, che hanno vinto 3 dei 5 Superbowl a cui sono arrivati e che sono fra i più seguiti della Lega, possa gettare discredito sui nativi americani e in effetti, fino a questo momento, nessuna corte si è espressa in questo senso. Anche perché la squadra di Washington ha un'altra importante tradizione: se la squadra vince l'ultima partita in casa prima delle elezioni, il presidente in carica sarà riconfermato. Una regola nota come «Redskins Rule», che si è sempre dimostrata vera dal 1933 ad oggi, tranne per la seconda elezione di George W. Bush.
Ora il faldone è arrivato sui tavoli della Corte suprema e i ricorrenti, che preferiscono essere famosi per i Casinò e le riserve o per la catena degli Hard Rock Cafè, posseduta da una tribù di nativi, contano molto sul fatto che negli ultimi 40 anni molte squadre che in passato avevano nomi legati ai pellirosse, abbiano scelto di cambiare: nel 1970, infatti, erano più di 3mila i team che, fra squadre pro, college e scuole superiori, avevano nel loro nome o nella loro mascotte un riferimento agli indiani, mentre ora sono "appena" un migliaio.
Ma forse, chissà, i giudici considereranno anche che, in quell'1,5% della popolazione composta da nativi, solo il 9%, secondo un sondaggio, considera il nome offensivo.
Perché probabilmente, finiti i tempi di Geronimo o Toro Seduto, non vede nulla di male in qualcuno che col proprio nome richiami il coraggio e la pittura rossa con cui i loro guerrieri si preparavano alla battaglia. Che sia su un campo da football o che sia davanti alla Corte suprema, fa poca differenza.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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