Un infinito cantiere di progetti inutili

Esibizione divertente, quasi ludica. Ma del tutto incapace di fornire risposte al problema dell’abitare. Fanno eccezione il Padiglione cileno, incentrato sul recente terremoto, e quello italiano, molto rigoroso

Un infinito cantiere di progetti inutili

La sconfortante esibizione di impotenza dell’architettura contemporanea ci viene, con le migliori intenzioni, proposta in questa dodicesima Biennale di Venezia, con molti capricciosi espositori i cui progetti hanno uno spirito ludico che li rende divertenti, piacevoli, «trasparenti», spesso inesistenti. Non si vedono rivelazioni e neanche proposte per una diversa condizione dell’uomo rispetto all’esigenza primaria dell’abitare. Gli architetti appaiono fortemente elusivi. Giocano come bambini. Così fanno Berger&Berger con il loro teatro prefabbricato, con pannelli di Alucobond, per rispondere a un’esigenza che non c’è. Così Matthias Schuler di Transsolar, insieme a Tetsuo Kondo, che hanno prodotto una nuvola nella quale immergersi e perdersi, non si sa per quale necessità: ma pare dia grande soddisfazione camminare nelle nuvole. Ancora più radicale, Olafur Eliasson, che disegna frustate nell’aria fatte di getti d’acqua; Raumlabor Berlin ha realizzato uno spazio temporaneo simile a un palloncino. Smiljan Radic e Marcela Correa espongono una pietra che è stata scavata in modo da ricavare uno spazio utile per una persona. Mentre Amateur Architecture Studio elabora una struttura di travi di legno assemblate, per comporre una cupola fluttuante. Non manca la motivazione: il gruppo di architetti scrive che «affondando le sue radici filosofiche nel Tao, si interessa al rapporto tra disgregazione e adattamento».
A noi riguarda poco, ma questo non importa: l’essenziale è divertirsi, così si avanza di padiglione in padiglione, dall’Arsenale ai Giardini, disorientati e sconcertati, con la sensazione di non capire il senso di questo infinito cantiere di idee inutili. Architettura senza necessità. Un appassionato di esperienze creative contemporanee, Martin Angioni, AD dell’Electa, ha la stessa sensazione e me la comunica. Ma non è polemico: è rassegnato. Perché siamo qui, e cosa dobbiamo conoscere? La direttrice Kazuyo Sejima non ci aiuta, anzi, si defila: non esprime una visione. Dice, letteralmente, allargando le braccia: «una esposizione di architettura è un concetto provocatorio, dato che è impossibile portare in mostra gli edifici veri e propri, i quali devono essere dunque sostituiti da modelli, disegni e altri oggetti. Ogni partecipante ottiene un suo spazio e agisce come curatore di se stesso». Da qui deriva la sensazione di capriccio, di spirito ludico, che caratterizza questa Biennale.
Si sottraggono paradossalmente a questa condizione due Padiglioni. Si salva quello cileno, con il riferimento ai gradi della scala Richter 8.8, per il terremoto del 27 febbraio, ormai lontano dalla nostra memoria (500 morti, 100mila edifici distrutti e altrettanti in via di demolizione, 17 ospedali, decine di prigioni e scuole e monumenti danneggiati su un area di circa 1000 chilometri). Il tema è forte, drammatico, riguarda la ricostruzione e incrocia il loro terremoto con i nostri ancora in corso, da quello del Belice (1968), a quello del Friuli, a quello dell’Umbria e delle Marche, a quello dell’Aquila. Abbiamo risposto in modi diversi, e in alcuni luoghi il terremoto continua, e non si è riparato nulla, come alcuni temono per l’Abruzzo. La Città di Salemi ha un centro storico che, dopo quarant’anni, appare come appena terremotato; ho tentato di compensare questa situazione assurda con il progetto delle case a un euro, che chiami a ricostruire le case del centro storico persone straniere e diverse dagli abitanti, che le hanno abbandonate, per abitare in case nuove di trasferimento. Il Cile deve riparare a una tragedia civile, come dopo una guerra.
Il tema è propriamente quello della Polis: così che appare propizio e opportuno che sia venuto, unico tra i politici nel mondo, il ministro della Cultura cileno Luciano Cruz–Coke Carvallo, interpretando perfettamente il suo ruolo, sia rispetto alla responsabilità dell’uomo di Stato e di governo, sia rispetto alla consapevolezza che l’architettura riguarda la storia e la politica di un popolo. La parola politica deriva, in tutta evidenza, appunto, da Polis.
E si salva il padiglione italiano. Molto ricco ed elaborato, con un’ampia documentazione di ciò che è accaduto all’architettura italiana negli ultimi vent’anni, a rischio di «amnesia», e con una serie di esempi, anche di riabilitazione di spazi, come l’importante intervento di Maria Alessandra Segantini a Sant’Erasmo, o quello di Studio Tamassociati per il centro Salam di cardiochirurgia di Emergency a Soba, in Sudan; o quello di Santo Giunta, Orazio La Monaca, Leonardo Tilotta, Simone Titone, per riabilitare aree confiscate alla mafia a Castelvetrano. Il padiglione Italia, trasformato nel palindromo «ailati», e curato da Luca Molinari, è didascalico e restituisce, in maniera rigorosa, rispetto a molti altri padiglioni, la consapevolezza di un’attività densa e febbrile.

Alla fine, uscendone si vede la cosa più bella, l’intervento di un architetto olandese di giardini, Piet Oudolf, che ha compiuto un’opera reale, ingentilendo un’area dimenticata e trascurata, il Giardino delle Vergini. Oudolf è l’unico che è sfuggito alla dannazione evocata dalla Sejima, che ha legittimato le inevitabili «provocazioni»: qui l’architetto ha agito, per noi, per tutti, in una prospettiva di durata.

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