30 anni fa moriva Dalla Chiesa, l'omaggio delle istituzioni

Nell'attentato morirono il generale, la moglie e un agente della scorta. Schifani: "La memoria dei migliori ci accompagna"

Sembrò, davvero, definitivamente "morta la speranza dei palermitani onesti". Un venerdì sera di trenta anni fa, un commando affiancò l’A112 condotta da Emanuela Setti Carraro, 32 anni, moglie del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, obiettivo della missione omicida. Seguiva l’auto di scorta, un’Alfetta non blindata, condotta dall’agente Domenico Russo. Tutti trucidati nel cuore di Palermo, in via Isidoro Carini, dai colpi di un kalashnikov imbracciato da Antonino Madonia a bordo della Bmw 518 con Calogero Ganci. Il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha inviato al prefetto di Palermo Umberto Postiglione un messaggio in cui definisce il generale Dalla Chiesa un "eccezionale servitore dello Stato, di comprovata esperienza operativa e investigativa".

L’agguato oggi viene ricordato laddove una mano ignota impresse quelle parole disperate. Alle 10 la deposizione di corone d’alloro nel luogo dell’eccidio e, a seguire, una messa nella chiesa di San Giacomo dei Militari, nella Caserma "Carlo Alberto dalla Chiesa", sede del Comando Legione carabinieri Sicilia, alla presenza del ministro dell’Interno Annamaria Cancellieri. Ricordarne il sacrificio, per Napolitano, "contribuisce a consolidare quella mobilitazione di coscienze e di energie e quell’unione d’intenti fra Istituzioni, comunità locali e categorie economiche e sociali, attraverso cui recidere la capacità pervasiva di un fenomeno criminale insidioso e complesso". Dalla Chiesa cadde in servizio dopo aver segnato in maniera emblematica l’impegno contro l’illegalità e la criminalità organizzata: dalla militanza nella guerra di liberazione al contrasto all’azione delle Brigate Rosse in Piemonte, fino alla lotta a Cosa Nostra come prefetto in Sicilia. "Quell’assassinio, come tutti gli omicidi di mafia
- aggiunge il presidente del Senato Renato Schifani - rappresentò un attacco diretto al cuore del nostro Paese, poiché quando una nazione perde i suoi uomini migliori, è come se avesse perso parte
delle sue energie vitali, quelle che consentono ad uno Stato di crescere e prosperare"
.

Trenta anni fa sembrava avesse vinto l’anti-Stato. Durante i funerali, il cardinale Salvatore Pappalardo tuonò dall’altare usando le parole di Tito Livio: "Dum Romae consulitur... Saguntum espugnatur. Mentre a Roma si pensa sul da fare, la città di Sagunto viene espugnata e questa volta non è Sagunto, ma Palermo! Povera Palermo nostra". Restano le ombre. I mandanti e alcuni esecutori sono stati condannati all’ergastolo. Ma, come disse l’attuale procuratore nazionale antimafia Pietro Grasso "per gli omicidi eccellenti bisogna pensare a mandanti eccellenti".

La loro ricerca non ha fatto alcun passo avanti e l’unica verità giudiziaria è compendiata nelle sentenze di condanna per due sicari e per i vertici della cupola tra cui Totò Riina, Bernardo Provenzano, Michele Greco e Pippo Calò.

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