Il tema delle pensioni non è una novità, sta ritornando caldo. Grazie ad alcune giravolte di Matteo Renzi, caldissimo. Nel 2012 sono stati spesi 311 miliardi di euro per prestazioni sociali: 255 miliardi per le pensioni e il resto per l'assistenza in senso stretto. Quasi il 40 per cento di tutte le spese correnti dello Stato italiano se ne va in spesa previdenziale. Anche se il calcolo non è tecnicamente corretto, confrontando le entrate per contributi sociali (cioè le ritenute fatte sui lavoratori e datori) e le uscite per pagare gli assegni di quiescenza si vede uno sbilancio di più di trenta miliardi. Usciamo dai numeri altrimenti impazziamo.
E cerchiamo di svelare con semplicità ciò che sta avvenendo. Per anni abbiamo promesso ai lavoratori pensioni che non ci saremmo potuti permettere. Il retropensiero era che aumentavano lavoratori e giovani (presto nuovi occupati) in grado di pagare i vecchi che smettevano di lavorare. Ci siamo trovati con indici di natalità bassi (meno giovani) e disoccupazione alta. Il giocattolo si è dunque rotto. Dal 1995 in poi sono stati fatti più di una mezza dozzina di interventi. Abbiamo dovuto spiegare a pensionati e lavoratori che il sistema non avrebbe retto.
Il senso finale delle riforme fino a qua fatte (a partire dalla madre di tutte, che è quella Dini) rende il nostro sistema pensionistico tutto sommato gestibile, poiché lega i contributi versati durante la vita lavorativa all'assegno previdenziale alla fine della stessa (sistema contributivo).
Nei prossimi dieci anni gli squilibri ereditati dal passato si faranno sentire. I giovani di oggi invece quando andranno in pensione tra venti-trenta anni avranno assegni talmente decurtati che daranno un sollievo alle casse pubbliche. Questa è la drammatica morsa in cui ci troviamo. Perché allora abbiamo definito giravolte quelle di Matteo Renzi? Il sindaco di Firenze e candidato alla guida del Pd ha giustamente riproposto il tema di una maggiore equità previdenziale. Ma equità nelle pensioni non vuol dire necessariamente redistribuzione dai più ricchi ai più poveri. L'unico criterio corretto è quello della correlazione tra contributi versati durante la vita lavorativa, aspettativa di vita (più anni sono pensionato più costo alla collettività) e entità dell'assegno pensionistico. Da un punto di vista puramente contabile 700 euro di pensione al mese possono essere più costose per le casse dello Stato di 7mila euro: tutto dipende da quanti contributi sono stati versati nel primo e nel secondo caso. Mi spiego meglio (in realtà Davide Serra l'ha spiegato bene a Renzi). Non stiamo certo dicendo di tagliare le pensioni ai più poveri. Stiamo solo dicendo, riferendoci a Renzi, che tagliare le pensioni ai cosiddetti ricchi non sempre è giusto dal punto di vista contributivo.
Se un'operazione di maggiore tassazione sulle cosiddette pensioni d'oro si vuole fare, non la si giustifichi con l'equità previdenziale-attuariale, ma con la volontà di tassare i più ricchi e redistribuire il reddito di socialista memoria.
Il dramma del nostro sistema previdenziale, ereditato dal passato, è dimostrato da una ricerca di alcuni anni fa realizzata per conto dell'Inps da Stefano Patriarca. Un lavoratore che nel 2010 fosse andato in pensione con 2.031 euro al mese (media delle liquidazioni Inps per i trattamenti di anzianità) avrebbe in realtà dovuto prendere non più di 1.050 euretti (calcolando i contributi versati e rivalutati al generoso tasso del 9,5 per cento l'anno).
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