Un dovere rifiutare il rigore più cieco

I conti pubblici italiani sono in ordine, siamo tra i sette Paesi virtuosi dell'Ue. Per la ripresa serve una deroga al rigore cieco: il premier si deve far sentire

Un dovere rifiutare il rigore più cieco

Quanto durerà? È il nuovo grande interrogativo che serpeggia in Europa. Se François Hollande è costretto a rivendicare più Europa nella gestione dell'economia, qualcosa significa. Non è solo una mossa tattica per giustificare la deroga al Patto di stabilità, ma la consapevolezza che alla lunga la moneta unica rischia di collassare. L'euro può sopravvivere a se stesso solo se le economie dei Paesi membri iniziano un cammino virtuoso, di crescita. C'è questa consapevolezza in Italia? In larga misura sì. Manca l'azione politica. Abbiamo fatto tutto quello che l'Europa a trazione tedesca ha chiesto e imposto a Monti. La riforma delle pensioni ha prodotto il guaio tossico degli esodati; il mercato del lavoro è stato reso più rigido, per non parlare dell'Imu e del suo inasprimento. Un overshooting che ha compromesso i risultati sperati. E l'abbiamo pagato caro in termini di recessione, che ha bloccato la politica monetaria della Bce di Mario Draghi, impedendo alla liquidità immessa dalla banca centrale di trasmettersi all'economia reale e trasformarsi in credito a imprese e famiglie, investimenti e consumi. Ciò significa che la riduzione dei tassi di interesse da parte della banca centrale non determina livelli di reddito più elevati, come invece previsto quando i canali di trasmissione di un'espansione monetaria all'economia reale funzionano.
In Italia i conti pubblici sono a posto. Il deficit rispetto al Pil è al 2,9%, quello strutturale e allo -0,7%, in linea con il fiscal compact. Persino l'Olanda, che fino a qualche tempo fa faceva parte del gruppo degli intransigenti, oggi è costretta a cedere e a chiedere anche per se stessa una deroga al Patto di stabilità. Unendosi così a Francia e Spagna, per non parlare di quei Paesi che sono fuori dai parametri già da tempo: Portogallo, Irlanda, Cipro, Malta, Slovenia, Grecia e Slovacchia. Sono 10 su 17 i Paesi dell'Eurozona che non rispettano il limite del 3% nel rapporto deficit/Pil. L'Italia è nella minoranza dei «fortunati» sette. Ma tutti i nostri sforzi perdono di efficacia davanti al solito rimbrotto: «Avete un debito pubblico troppo elevato». Vero, ma è aumentato (+24,4% tra il 2006 e il 2014) a un ritmo ben inferiore rispetto a quello degli altri Paesi (+71,8% la media di Belgio, Francia, Germania, Grecia, Portogallo, Irlanda e Spagna). La Germania non computa nel suo debito pubblico i costi del welfare, o il rapporto sul Pil passerebbe dall'85,8% ufficiale al 111,8%. Eppure questa montagna, in termini nominali ben superiore allo sbilancio italiano, non fa paura per il forte attivo della bilancia dei pagamenti tedesca, conseguenza di un euro sottovalutato rispetto al vecchio marco tedesco che rappresenta il dividendo (avvelenato) di Maastricht.
Il sistema basato sulla riduzione dei tassi di interesse per i Paesi «cicala» e un tasso di cambio che ha rilanciato il commercio dei Paesi «formica» regge fino a ottobre 2009, quando si scopre un buco nei conti pubblici di Atene, che fa scoppiare la bolla del dividendo egoistico di Maastricht, mette a nudo le debolezze dell'euro e dell'architettura istituzionale che lo sorregge. Gli squilibri macroeconomici vengono a galla: la Germania si è arricchita grazie al cambio euro/marco di fatto sottovalutato. Il Fondo monetario internazionale ha recentemente calcolato che la Germania occupa il 14,8% del totale dei flussi finanziari mondiali. Al primo posto. Più della Cina (11%) e dell'Arabia Saudita (10%), nonostante quest'ultimo sia il principale Paese esportatore di petrolio.
Sono i vantaggi dell'egemonia, si potrebbe rispondere. A sua volta figlia dei duri sacrifici fatti in passato. Agli inizi del 2000 l'allora cancelliere tedesco, Gerhard Schröder, compresse la domanda interna per aumentare la produttività. Fu una scelta lungimirante in una fase espansiva dell'economia internazionale, soprattutto sostenuta dalla locomotiva americana. E dai debiti contratti. Proprio quel rimprovero che oggi il Fmi rivolge, nemmeno tanto velatamente, ad Angela Merkel e alla sua ossessione per l'austerity. Vale a dire la dimostrazione scientifica che la compressione della domanda interna in periodi di decrescita economica ha effetti recessivi pari a 3 volte quelli che si verificano in periodi di aumento del Pil. Non dimentichiamo che fu proprio la «virtuosa» Germania a sforare, nel 2003, in buona compagnia della Francia, i parametri di Maastricht, arrivando a definire «stupido» il Trattato.
Eppure quando Draghi, pur con mille difficoltà, cerca di far convergere la politica monetaria della Bce verso un'impostazione espansiva, la Bundesbank ne critica i comportamenti. Il suo presidente, Jens Weidmann, ha ribadito che gli Stati devono poter fallire, e che la possibilità di default è un elemento chiave per la disciplina dei mercati. Coinvolgere i creditori privati nel fallimento dei Paesi sovrani vuol dire creare una saldatura di fatto tra crisi del debito pubblico e crisi finanziaria. Occorre invece al più presto tagliare i legami tra banche e governi, che sono troppo deboli per sostenerle. L'obiettivo dell'unione bancaria, di cui si parla da più di un anno, era proprio questo. Sì, ma dov'è finita? E il Meccanismo europeo di stabilità? Formalmente è operativo, ma di fatto è bloccato dalla Germania, che pretende un sistema di vigilanza unico sul settore bancario, che non potrà esistere se non come conseguenza della relativa unione.
E di Eurobond, Project bond, Stability bond, chi ne ha sentito più parlare? E dell'unione politica, con il relativo rafforzamento del quadro istituzionale attuale e l'elezione diretta del presidente della Commissione europea? E dell'unione fiscale, che preveda controlli uniformi delle politiche di bilancio dei singoli Stati e l'armonizzazione delle politiche economiche?
Lo stesso vale per l'occupazione giovanile. Non servono palliativi, o soluzioni di emergenza: occorre una strategia complessiva. Dov'è finito quel Patto per la crescita e l'occupazione, tanto acclamato al Consiglio europeo del 28-29 giugno 2012? Fra il dire e il fare, in Europa, c'è uno stallo enorme, e una crisi economica, finanziaria, istituzionale e sociale senza precedenti. Altro che rischio di break up superato, oggi è ancora più grave del passato, perché la diffidenza dei popoli non è solo nei confronti della moneta unica, ma della costruzione europea in generale. Su questo il Parlamento italiano si è espresso chiaramente con la risoluzione approvata alla Camera sulle comunicazioni del premier, Enrico Letta, con riferimento al Consiglio europeo del 22 maggio. Il documento rappresenta la richiesta all'Europa di un cambio di passo. Si tratta di uscire dal rigore cieco, da una pervicace chiusura a qualsiasi formula che non sia austerità e poi ancora austerità, per aprire il respiro allo sviluppo.
Mentre negli altri Paesi europei le maggiori forze sono divise sulla strategia macroeconomica europea e nazionale, in Italia invece c'è un perfetto idem sentire, in vista del prossimo Consiglio europeo del 27-28 giugno 2013. Non si dimentichi che l'Italia è il terzo contribuente alle finanze comunitarie. Daremo, pertanto, mandato al nostro presidente del Consiglio di rivendicare i diritti di un'azionista, seppure di minoranza, e pretendere, senza timidezza, che la nostra voce sia ascoltata e abbia il rispetto che merita.
Sappiamo quanto questo sia difficile. Ma non dobbiamo dimenticare che la politica estera, da che mondo è mondo, si calibra più sulla forza che non sulla «ragion pura». Caro presidente Letta, è certamente necessario fare delle scelte, date le risorse scarse. Ma l'unica scelta che tiene insieme tutte le altre è quella dello sviluppo. E lo sviluppo si fa in Europa, si fa con la deflazione da parte della Germania, si fa con il cambiamento della politica economica. Fuori da questo si finisce solo, a livello dei singoli Paesi, con il cannibalismo economico, con il cannibalismo politico, con il cannibalismo sociale. E nuovamente il caos.

segue a pagina 2

di Renato Brunetta

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