Il grande bluff del premier: non ha i soldi per fare i tagli

Dagli sgravi sull'Irpef alla riduzione dell'Irap, Renzi promette l'irrealizzabile pur di restare in sella al governo e al Pd. Ma 20 miliardi di coperture sono incerte

Il grande bluff del premier: non ha i soldi per fare i tagli

Renzi ci riprova. Ci è riuscito col Partito democratico, adesso ci prova con gli italiani. Il suo, ancora una volta, è un bluff sulla pelle di tutti noi. Ma il populismo del giovane presidente del Consiglio si sta già svelando. Prima di quanto si pensasse.
È solo di lunedì scorso la visita del presidente del Consiglio, Matteo Renzi, a Berlino, ed è solo di giovedì e venerdì scorso il Consiglio europeo di Bruxelles (la visita di sabato 15 marzo a Parigi si è prescritta), ma il re è già nudo. Sull'accoglienza a Berlino, che non è stata «a baci e abbracci» come qualcuno ha voluto farci credere, si è pronunciato in maniera più che esplicita il presidente di Confindustria, Giorgio Squinzi. Quanto a Bruxelles, poi, Renzi certamente non è andato a prendere ordini, come ama dire, perché «l'Italia sa perfettamente cosa deve fare e lo farà da sola», ma a prendere lezioni invece sì. E questo lo ha ammesso lui stesso: «Per me è stato il primo Consiglio europeo, e come sempre in questi casi è stata un'occasione per approfondire, imparare, conoscere».
La lezione gliel'ha data il presidente della Commissione europea, José Manuel Barroso, che ha spiegato a Matteo Renzi 3 cose: 1) In Italia molti, e tra questi il presidente del Consiglio, pensano che sia la Commissione europea a imporre le regole. Non è così. La Commissione non impone nulla: ci sono degli accordi formali, dei Trattati, che sono stati firmati nel rispetto del potere sovrano dei singoli paesi e che devono essere rispettati. Gli Stati membri, tra cui l'Italia, hanno definito degli obblighi nel quadro di questi accordi, da ultimo nel fiscal compact, e la Commissione europea ha solo il compito di verificare che essi vengano rispettati. 2) Non rientra tra i compiti della Commissione, invece, quello di cambiare i Trattati. Questo ruolo spetta ai singoli Stati e per farlo serve l'unanimità. 3) La crescita non si fa spendendo. La crescita si fa con le riforme strutturali, che creano più competitività per il paese e attirano investimenti. Misure di sviluppo fatte in deficit non sono «misure intelligenti», perché qualcuno, poi, finisce sempre per doverle pagare. E in genere quel qualcuno sono i contribuenti.
Insomma, presidente Renzi: è così che funziona. E se la proposta di dare 80 euro in busta paga a chi in Italia guadagna più di 8.000, ma meno di 25.000 euro lordi all'anno, non è realizzabile, non lo è non perché non vuole l'Europa, ma perché non lo consente l'articolo 81 della nostra Costituzione, recentemente novellato, e perché non lo consente la legge 243/2012, stando al dettato della quale, qualora il governo intenda «discostarsi temporaneamente dall'obiettivo programmatico di medio termine», il relativo provvedimento deve essere autorizzato dalle Camere a maggioranza assoluta dei componenti.
E ai componenti delle Camere è ben noto come la situazione dei conti pubblici italiani non è poi così «serena» come appare. Innanzitutto, esiste una certa discordanza tra le previsioni della Commissione europea (European economic forecast - Winter 2014) e il quadro complessivo recato dalla Nota di aggiornamento del Def 2013 (sia pur del precedente esecutivo, è l'ultimo atto ufficiale disponibile), da cui deriva una differenza di 0,4 punti percentuali in termini di crescita (tra il +1% previsto dal governo rispetto al + 0,6% previsto dalla Commissione), le cui conseguenze sul deficit possono essere calcolate in 0,2 punti di Pil. Inoltre, la Commissione prevede, al tempo stesso, minori uscite complessive (-0,2% del Pil) e minori entrate (-0,3% del Pil) il cui saldo determina un aumento del deficit, rispetto alle previsioni, di circa 0,1 punti di Pil.
Da tutto quanto (previsione deficit a -2,5%, più ulteriore -0,2% derivante dalla discordanza tra le previsioni della Commissione europea e quelle del governo, più ulteriore -0,1% da saldo tra minori uscite e minori entrate) deriva che il deficit implicito nei tendenziali di finanza pubblica, anche a seguito dei provvedimenti presi con la Legge di stabilità, che hanno comportato rilevanti impegni per gli investimenti, è pari al 2,8% del Pil. Queste proiezioni riducono, fino ad annullare, qualsiasi ulteriore margine di intervento per il ventilato aumento delle detrazioni Irpef per i meno abbienti. Provvedimento che non può essere realizzato in deficit. Perché, come ha detto Barroso, riprendendo le parole del presidente della Banca centrale europea, Mario Draghi, non si fa crescita con la spesa.
In questo quadro, per niente roseo, colpisce il silenzio del ministro dell'Economia e delle Finanze, Pier Carlo Padoan, e del Ragioniere generale dello Stato, Daniele Franco. Il primo è intervenuto soltanto sabato scorso a Cernobbio, dove, forse anche tradendo il suo passato di osservatore negli organismi internazionali, si è limitato a fare una relazione più descrittiva del quadro economico che propositiva. Il tema dei provvedimenti economici annunciati dal governo ha preferito non sfiorarlo neanche. Solo una significativa distinzione fra «misure d'intervento immediate» e «misure di carattere strutturale». Un messaggio nella bottiglia al presidente Renzi? Con poche parole, infatti, il ministro Padoan ha svelato il «Renzi's trick». Ci ha fatto capire, cioè, che le misure annunciate dal premier in conferenza stampa il 12 marzo - dagli sgravi Irpef al taglio dell'Irap; dagli interventi sull'edilizia scolastica alla tutela del territorio; dalla riduzione del costo dell'energia al credito d'imposta per i giovani ricercatori e il finanziamento al Fondo per le imprese sociali - sono incompatibili con il rispetto del 3%. Il costo complessivo, infatti, sfiora i 20 miliardi di euro e per il loro finanziamento il governo non ha individuato risorse certe e contestualmente disponibili, bensì coperture solo eventuali e future.
Al contrario, il rispetto del tetto del 3%, è compatibile con le riforme strutturali, dal completamento della riforma della PA al miglioramento dell'efficienza del sistema bancario; dalla riforma del mercato del lavoro alla riforma fiscale e alla liberalizzazione delle public utilities. Riforme che riporteranno finalmente il nostro paese su un sentiero virtuoso di crescita e favoriranno la modernizzazione e la competitività del «sistema Italia», aumentando la produttività del lavoro e dei fattori produttivi, condizione fondamentale per la sostenibilità dei conti pubblici nel lungo periodo.
Qualsiasi riduzione della pressione fiscale in deficit, insomma, come intende fare il presidente del Consiglio, non può che portarci verso una nuova procedura di infrazione da parte della Commissione europea e non può che essere sanzionata dai mercati. In particolare, tra tutte le misure presentate dal premier quella che preoccupa di più è il taglio dell'Irpef. Per mantenere questa promessa, servono 837 milioni di euro al mese. E servono da subito. Da maggio.

Altrimenti si creerà un buco mensile di tale importo nella casse dello Stato. È questo che Renzi vuole, pur di vincere le elezioni europee e rimanere in sella al governo e al suo partito? Noi non glielo consentiremo. Per il bene del paese.

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