l’intervista

da Milano

Lei ha lasciato solo pochi mesi fa la posizione di numero uno per l’Italia di Morgan Stanley, prima che qualcuno potesse lontanamente immaginare a che livello sarebbe arrivata la crisi finanziaria. E oggi insegna economia ad Harvard. Preveggenza?
«Semplicemente si è chiuso un capitolo», dice in questa intervista al Giornale Dante Roscini. «Ho lavorato per venti anni nelle tre principali banche d’affari americane (oggi tutte traballanti, Morgan Stanley, Merrill Lynch e Goldman Sachs, ndr) - aggiunge -; era da un po’ che avevo voglia di cambiare, il mestiere di banchiere non era più lo stesso. Avevo voglia di fare qualcosa di diverso, ritornare al mondo accademico che avevo conosciuto da giovane. Una sorta di sfida intellettuale».
Con ben altri stipendi.
«Nonostante sia ad Harvard è ovvio che parliamo di retribuzioni non comparabili, ma non si viene qui per il denaro. Proprio per il mio passato, però, oggi sono nelle condizioni di poterlo fare con grande serenità».
Nel frattempo è crollato il suo vecchio mondo...
«Si percepisce ancora un’insicurezza a livelli altissimi. Basta guardare alle escursioni dei prezzi in Borsa. Ma con la mossa adottata da Fed e governo americano ieri si è fatto un passo avanti. Si è abbandonato un approccio di interventi specifici: il salvataggio di Bear Sterns o quello di Aig. Che, con il senno di poi, hanno avuto l’effetto di aumentare l’incertezza sui mercati. Si è creata, infatti, una situazione per la quale era difficile prevedere il prossimo passo. E tutto ciò ha portato al panico. Basti pensare, per fare un solo esempio, cosa è accaduto per General Electric: nel passato raccoglieva a tassi pari ai Fed funds, e ieri notte il costo della sua raccolta è salito di 3,5 punti. O i livelli di rendimento dei Titoli di Stato, praticamente a zero, roba che non si vedeva dalla Seconda guerra mondiale».
Il piano di intervento di Bush e Paulson la convince, dunque?
«Si è adottato un approccio sistemico a una crisi che è del sistema, e già oggi (ieri per chi legge, ndr) il sentimento sui mercati è cambiato. Non si possono studiare solo soluzioni ad hoc per una crisi di questa portata».
È stata buttata a mare una filosofia di non intervento sui mercati.
«Sì, decisamente. Ma occorre guardare al lungo termine. E oggi siamo ancora nel guado. È sano mettere mano alle regole. Fino a oggi erano studiate per le banche commerciali e lo spazio per l’investment banking era deregolato. E i due candidati alla presidenza degli Stati Uniti hanno entrambi colto la necessità di avviare un ripensamento delle regole condivise».
L’effetto pratico è, però, quello di un salvataggio di chi più ha rischiato. Insomma, si rischia di incentivare l’azzardo; tanto alla fine pagheranno i contribuenti.
«Bisogna mettere al giusto posto i pesi sulla bilancia. Il crollo delle istituzioni finanziarie americane avrebbe comunque comportato un grosso costo per i contribuenti americani. E infine il conto finale è ancora tutto da vedere. Nel passato l’amministrazione americana ha anche avuto plusvalenze da un suo intervento temporaneo sul mercato».
Dal punto di vista aziendale, sembra invece finito il modello di business delle grandi case d’affari americane. È così?
«Credo che sia finito un ciclo. Nel futuro un modello di business basato su molta leva, su grandi quantità di debito non lo ritroveremo più. La crisi di liquidità di queste ore dimostra la necessità di avere in casa patrimoni che reggano le turbolenze. È possibile che Morgan Stanley e Goldman Sachs riusciranno a restare indipendenti, ma con regole completamente diverse rispetto a quelle del passato».
L’Europa corre gli stessi rischi?
«Le grandi banche d’affari “pure” sono un fenomeno prettamente americano. Quelle europee negli ultimi vent’anni sono state quasi tutte inglobate da Wall Street. Nella City negli anni ’90 si diceva “I banchieri americani sono overpaid, sono overworked, sono over here».
A proposito di overpaid, ritiene che si sia esagerato con gli stipendi dei supermanager della finanza?
«Non credo affatto che sia stata questa la ragione fondamentale del crollo di questi giorni. Il problema, come ho già detto, era di regole del sistema. È semplicistico attribuire all’avidità di un manager la fine di una banca».


I suoi studenti della scuola di business di Harvard cosa vogliono fare da grandi, ancora i banchieri?
«Certo fino a poco tempo fa i Paulson, i Thain erano le loro icone. Ma il sogno americano si aggiorna velocemente. Anche i nuovi studenti hanno grande voglia di affermazione, ma con più equilibrio e non a tutti i costi».

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