Poiché nella lizza del Quirinale è entrato anche Franco Marini, significa che si sta raschiando il fondo del barile. Marini è un'ottima persona ma scialbo da matti. Domani 9 aprile, guarda caso, compie ottant'anni. L'occasione per fare un bilancio.
A saltare all'occhio, è che per tutto questo tempo non ha avuto un guizzo o un'idea che sia rimasta nella memoria, nonostante il carrierone che ha alle spalle. Negli anni Ottanta, fu una potenza sindacale come segretario generale della Cisl e vent'anni dopo, dal 2006 al 2008, è stato addirittura presidente del Senato, seconda carica dello Stato in quota Pd. Ecco spiegato perché oggi circola il suo nome per il Colle: è nel giro dei soliti vetusti di sinistra - Prodi, Amato, D'Alema & soci - che a ogni scadenza rispuntano per accaparrarsi la poltrona appena liberata. Pare che Franco piaccia anche a Berlusconi al quale, peraltro, va a genio perfino D'Alema. È pazzesco, direte. Esatto. Ma sono tempi in cui il centrodestra, incapace com'è di proporre gente sua, si accontenta dei meno tremendi tra gli scarti altrui.
Marini non è mai stato antiberlusconiano arrabbiato. Del Cav ha detto: «Nel 1994 ha dimostrato grande coraggio. Pochi avrebbero avuto la forza di fare quello che fece lui allora». Ossia, mettersi contro i comunisti. Sulle trappole giudiziarie ha osservato: «Che contro di lui ci sia una pressione fortissima si vede a occhio nudo». Onesto e banale: la vera natura del Nostro.
Mancandogli il genio, di Marini hanno colpito le bagattelle. In primo luogo, il sigaro e la pipa. Dopo lungo studio e qualche frequentazione, sono giunto a queste conclusioni. Il sigaro lo inalbera in occasioni minori, dalle interviste alle riunioni ristrette. Più che altro, è una posa. Infatti non lo fuma, non lo mastica, non lo punta. Si limita a palparlo come un amuleto, tipo cornetto. La pipa, invece, è riservata alle apparizioni tv e, come il sigaro, non l'accende. Si può dunque concludere che Marini sia un non fumatore, dandosi però l'aria di esserlo. Forse, dubitando della propria personalità, se ne attribuisce una fittizia come molti insicuri si trincerano dietro barba e mustacchi.
La seconda cosa che si è notata di Marini - una terza non c'è - è l'epiteto di «lupo marsicano». Marsicano sta per abruzzese, essendo nato a San Pio delle Camere, patria dello zafferano, sull'altopiano del Gran Sasso. Primo di quattro figli di primo letto di Loreto, operaio della Snia Viscosa di Rieti, Franco, orfano a undici anni della mamma, ebbe altri tre fratelli dalle seconde nozze del babbo. Crebbe in parrocchia, si iscrisse all'Azione cattolica, fu nelle Acli. Frequentò il liceo e si laureò in Legge. Entrò quindi nella Cisl e contemporaneamente nella corrente della sinistra dc di Forze Nuove, guidata da Carlo Donat Cattin. È qui che al marsicano si aggiunse l'attributo di lupo, il silenzioso predatore delle sue montagne. Una definizione che Marini si è meritato per la determinazione con cui ha fatto salsicce di chiunque potesse ostacolarlo. Il primo ad accorgersi che fosse un tritasassi fu Giuseppe, il taciturno autista di Donat Cattin, che un giorno aprì bocca solo per dirgli: «Onorevole, Marini è uno che uccide col silenziatore». Donat riflettè un istante, poi disse: «Giuseppe, hai ragione», e si appropriò il giudizio diffondendolo ai quattro venti.
Nella Cisl, il suo rivale era Enzo Scotti. Fu il primo a essere silenziato dal lupo marsicano che, facendogli intorno terra bruciata, lo costrinse a lasciare il sindacato per darsi alla politica nella Dc. A Scotti, però, andò bene perché fu più volte ministro (e sottosegretario nell'ultimo governo Berlusconi). Negli anni Ottanta, quando a capo della Cisl c'era Pierre Carniti, Marini ne divenne il vice.
Appena Pierre, con tutti gli altri capi sindacali, subì la sconfitta alla Fiat con la marcia torinese dei quarantamila colletti bianchi, Marini se lo lavorò ai fianchi finché l'altro, esausto, si ritirò a vita privata, lasciandogli la guida della Cisl. Fatta la seconda vittima, si godette la cadrega per sei anni (1985-1991), per poi passare definitivamente alla politica dopo la morte di Donat Cattin. Anche qui, per subentrargli, dovette eliminare il suo unico concorrente, Sandro Fontana, da decenni fedelissimo donatcattiniano. Fu la vedova, signora Amalia, a essere decisiva, schierandosi con lui.
Dopo Tangentopoli, che travolse la Dc e insieme Forze Nuove, si trasferì nel Ppi, che dello scudocrociato fu la pallida reincarnazione.
Nel giro di qualche anno, tra il 1994 e il 1997, lo troviamo a fianco di tutti gli esangui segretari popolari - Martinazzoli, Buttiglione, Bianco - col solo intento di sostituirli. Fu amico di tutti e tre, li accompagnò nel dimenticatoio, e ne occupò il posto.
Nei due anni in cui governò il Ppi, portò il partito al minimo storico - quattro per cento - per poi consegnarlo a Pierluigi Castagnetti, che lo seppellì. Traslocò nella Margherita a fianco di Prodi e poi nel Pd.
La prima decade del nuovo millennio è stata il suo momento d'oro. Ha fatto anche una capatina a Strasburgo come europarlamentare prima di salire al trono di Palazzo Madama, nel biennio dell'ultimo governo Prodi. Come presidente d'Aula non è stato un granché. Mancava di polso e i senatori ne profittavano per fare baccano. Una volta che il governo Prodi andò sotto, quelli di An stapparono in Aula dello champagne. Pum, pum. «Non siamo all'osteria», urlò Marini. Un intervento senza pepe che moltiplicò la confusione facendo degenerare memorabilmente la seduta.
Gli è sempre mancata la battuta che stempera i malumori, di cui furono maestri Fanfani e, per quanto appaia strano, Scalfaro. Se con lui si sorrideva, era per umorismo involontario. Un giorno, durante uno di quei dibattiti perdigiorno, chiese la parola l'allora ottantenne Alfredo Biondi, portabandiera liberale di Fi e imbattibile uomo di spirito. «Solo due minuti - si raccomandò Marini-. E sia rigido». «Di rigido alla mia età c'è poco», replicò Biondi allusivo, suscitando spanciamenti collettivi. «Però, con un po' di impegno ci può riuscire», replicò Marini provocando un boccaccesco marasma senatorio che mandò la seduta a ramengo.
Dal 1992 al febbraio di quest'anno, Marini è stato sempre rieletto (quattro legislature alla Camera, due al Senato). A giorni, incasserà la liquidazione di 174mila euro.
Nella lunga carriera, non è incappato in incidenti gravi.
Il più notevole - un lustro fa - la polemica sull'acquisto a prezzi stracciati (un terzo meno del suo valore di mercato) del suo appartamento-piazza d'armi (14 stanze) nel quartiere chic dei Parioli. Franco, come suole, accusò la stampa di malafede.È tutto. Ce lo vedete il marsicano al Quirinale?
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